Sulle pensioni il paese ha bisogno di serietà, non di promesse in deficit
E’ già partito l’assalto congiunto alle pensioni. Tocca al premier difendere il bilancio dal partito unico del deficit
I giornalisti definiscono spesso il dibattito parlamentare sulla legge di Bilancio come l’“assalto alla diligenza”. Di fronte all’assalto di quest’anno a quella diligenza sommariamente rattoppata che è il bilancio dello stato, il presidente del Consiglio Gentiloni dovrà dimostrare di possedere una riserva quasi inesauribile di quel mix di pazienza e di fermezza che gli viene da tutti riconosciuto. Si tratterà, infatti, di fronteggiare all’interno le richieste dei partiti di riduzioni di imposte e di aumenti di spesa, in chiave essenzialmente elettorale, e, all’esterno, le valutazioni severe dell’Unione europea e di varie istituzioni internazionali, sicuramente più attente agli orizzonti di medio e lungo periodo.
E’ normale che i politici diano maggior peso al gradimento dei cittadini-elettori che non al “bene del paese”, che richiede orizzonti più lunghi delle scadenze elettorali, ma forse proprio qui sta la differenza tra politici e statisti. Nei giorni scorsi il sistema previdenziale è stato oggetto dello scontro tra questi due punti di vista, il che è comprensibile data la sua importanza per i bilanci famigliari dell’elettorato non più giovane, che è anche il più numeroso, sul quale l’eventualità di sue variazioni ha un forte impatto anche emotivo.
Il dibattito ha finora spaziato dall’introduzione di una garanzia pensionistica per i giovani (le vere vittime del sistema pensionistico del passato) a quella di condizioni di favore per le donne (l’Italia è un paese con una fortissima disparità di trattamento nel mondo del lavoro, come mostrano le statistiche sui divari di genere diffuse proprio in questi giorni); dall’abolizione dei vitalizi, peraltro rapidamente arenatasi in Senato, all’allargamento delle condizioni per l’Ape sociale, il prestito pensionistico interamente a carico dello stato (cioè dei contribuenti futuri).
Ora il dibattito è concentrato sull’aumento “automatico” dell’età pensionabile conseguente all’aumento dell’aspettativa di vita dei 65enni, certificata dall’Istat in cinque mesi tra il 2013 e il 2016. L’automatismo non è opera del governo Monti, come normalmente si ritiene, ma è dovuto a una norma del 2010, introdotta dal governo Berlusconi (con Sacconi Ministro del Lavoro e Tremonti ministro del Tesoro) e quindi accolta e attuata dalla riforma Monti-Fornero del 2011. La norma dà piena attuazione al metodo contributivo di calcolo delle pensioni, e cerca di sottrarre al conflitto sociale e alla miopia politica la necessità di un aumento della vita di lavoro quando aumenta la durata della vita, in modo da non farne ricadere l’onere su altri (come al solito, i giovani e le generazioni future).
Tutti i partiti sembrano oggi d’accordo nella volontà di eliminare, o almeno rinviare, l’aumento. L’opposizione ne addossa la responsabilità all’interno ai partiti di governo e, all’estero, alle istituzioni europee e in particolare alla “cattiva” Germania. I partiti che sostengono (spesso in modo non proprio entusiasta) il governo sono a loro volta propensi a lasciar credere che l’indicizzazione, introdotta in un periodo di emergenza della finanza pubblica, oggi non sia più necessaria e che quindi le retromarce siano non solo possibili, ma anche poco costose.
Entrambe le tesi non corrispondono a una rappresentazione corretta della realtà. Andrebbe piuttosto spiegato chiaramente agli italiani che i loro sacrifici – reali e non immaginari, a onta di coloro che si sono invece tenuti stretti i privilegi – hanno reso finanziariamente sostenibile e più equo il nostro sistema pensionistico. Pertanto, i sacrifici fatti, necessari in quella situazione critica, sono stati anche molto utili, ossia hanno prodotto importanti risultati per quanto riguarda la sostenibilità del debito pubblico. Invece questi sacrifici rischierebbero di essere compromessi se si innestasse la retromarcia; l’Italia, se mantiene la riforma, è il paese in Europa che è maggiormente riuscito a stabilizzare la spesa pubblica.
Ai partiti che propongono disinvoltamente di cancellare in tutto o in parte la riforma delle pensioni, gli italiani dovrebbero chiedere a quali spese e quindi a quali benefici dovrebbero rinunciare per evitare nuovi debiti a danno dei loro figli e nipoti. E qui sta il punto: agli italiani va detto con chiarezza che nessuna delle proposte di alleggerimento della riforma è indolore.
Chi scrive ha più volte sostenuto l’opportunità dell’Ape sociale, una misura che consente il ritiro dal lavoro a età/anzianità inferiori a quelle previste dalla legge con un prestito i cui costi sono posti a carico della collettività. Una misura, pertanto, di redistribuzione del reddito, e nella giusta direzione dai più ricchi ai meno fortunati (disoccupati, disabili e dediti a curare un famigliare in difficoltà); una misura assistenziale, i cui costi, come sempre si reclama, devono essere sottratti al bilancio previdenziale e coperti con la tassazione generale, progressiva.
Anche l’Ape volontaria, sulla quale sono peraltro leciti maggiori dubbi, se non altro di efficacia, va nella direzione di consentire, a coloro che lo vogliano, di accedere a un prestito – che andrà restituito da chi se ne avvale – per finanziare eventualmente un’uscita anticipata. Una misura di libertà e di flessibilità responsabile, non di flessibilità a carico di altri soggetti, magari più poveri di chi ne beneficia.
Di queste questioni è giusto che i politici parlino con gli elettori, non per fare loro nuove facili promesse e neppure per terrorizzarli, ma per aiutarli a comprendere la complessità dei problemi del paese: quando si parla di vincoli di bilancio, in realtà si parla di giustizia tra le generazioni. Alla pazienza di Gentiloni dovrà pertanto aggiungersi la tenacia del ministro Padoan nel tenere ben fermi i paletti sui quali la legge di Bilancio è stata costruita.