Matteo Renzi sul palco della Leopolda 2012 (foto LaPresse)

Come ritornare allo spirito della Leopolda per guarire dal "male italiano"

Luciano Capone

Lo studio di Luigi Zingales sul legame tra produttività e meritocrazia

Roma. In economia c’è il “male olandese”, che spiega il declino del settore manifatturiero per l’eccessiva dipendenza dalle risorse naturali (in genere petrolio). E c’è poi il “male italiano”, che invece spiega il declino della produttività per l’eccessiva dipendenza dal nepotismo e l’assenza della cultura del merito. La prima definizione si riferisce alla crisi industriale dell’Olanda negli anni ‘60 dopo la scoperta di un importante bacino di gas naturale. La seconda malattia invece è stata diagnosticata da due economisti italiani, Luigi Zingales della University of Chicago Booth e Bruno Pellegrino della University of California di Los Angeles, e riguarda la stagnazione economica dell’Italia degli ultimi 20 anni, dopo l’irruzione della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica.

 

Pellegrino e Zingales hanno appena aggiornato uno studio del 2014 (“Diagnosing the italian disease”), in cui hanno cercato di capire le cause della stagnazione economica italiana, che è precedente alla crisi economica del 2008. Dal 1996 al 2006 l’Italia si è distinta tra le economie sviluppate (Germania, Francia, Stati Uniti, Giappone) per una produttività del lavoro tre o quattro volte inferiore, accumulando in dieci anni un ritardo enorme. Questo prima della crisi. Dopo le cose sono andate anche peggio. Quali sono le cause della scarsa produttività? Dal ‘96, prima della recessione, l’Italia ha avuto condizioni ottimali: nessuna crisi finanziaria, bassa inflazione, tassi d’interessi bassi e stabili, un politica fiscale espansiva con un deficit superiore al 3 per cento ogni anno. E poi anche stabilità politica: due legislature, una di centrosinistra e una di centrodestra, con alcuni dei governi più longevi della storia della Repubblica. Anche se Zingales recentemente si è un po’ avvicinato alle rivendicazioni dei no euro, nello studio riconosce che la moneta unica non è stato un problema, come non lo è la concorrenza della Cina dopo l’ingresso nel Wto e, in fondo, neppure la rigidità del mercato del lavoro.

 

Ma allora qual è la causa del “male italiano”? Secondo gli economisti è stata l’incapacità di raccogliere i frutti della rivoluzione digitale (Ict), a causa di un ambiente non meritocratico. L’Italia è un paese dove le conoscenze (delle persone giuste) contano più della conoscenza (delle cose importanti), in cui le aziende selezionano i manager più in base alle relazioni e alla fedeltà che in base ai titoli e alle competenze. E questo perché in un paese in cui l’attività economica è ostacolata dalla giustizia lenta, dall’eccessiva burocrazia e dal sistema bancario poco competitivo, servono le persone con le chiavi giuste per aprire le tante porte chiuse. Se in un’economia chiusa questo sistema riesce a sopravvivere, nella mercato globale è perdente.

 

L’analisi di Pellegrino e Zingales è rivolta al sistema delle imprese, ma riguarda anche la politica. Non a caso ripercorre i punti essenziali dell’intervento di Luigi Zingales in una delle prime Leopolde, quella del 2011: “Il male oscuro dell’Italia è che è un paese governato non dai migliori, non dai mediocri, ma dai peggiori – disse Zingales – Il nostro paese si è trasformato in un ‘Peggiocrazia’”.

 

Quel messaggio è stato a lungo un elemento fondamentale della narrazione renziana, secondo cui anche in politica non doveva prevalere il criterio della lealtà ma quello della competenza: “Nel mio Pd andranno avanti i più bravi non i più fedeli, dichiarerò guerra alla mediocrità”, diceva Matteo Renzi. Nel corso degli anni però, tra “gigli magici” e cerchi più o meno ristretti, sembra che qualità come l’amicizia o la prossimità in molte circostanze abbiano prevalso sulla bravura e sulla preparazione.

 

Eppure oggi c’è ancora più bisogno di prima di valorizzare le competenze e nella società c’è una domanda molto forte di persone capaci. A Renzi basterebbe guardarsi attorno per rendersi conto che, a differenza degli altri leader politici, in campagna elettorale può affiancarsi a persone apprezzate per come hanno governato questioni complesse: Paolo Gentiloni, Marco Minniti, Carlo Calenda, Pier Carlo Padoan. Renzi non prova simpatia per alcune di queste figure e magari teme che tra di loro ci sia chi ha le qualità per soffiargli la leadership del Pd. Ma, ancora una volta, quando la scelta è tra la bravura e la fedeltà, come ricordava Zingales alla Leopolda, “non c’è persona più fedele del buono a nulla, perché non ha alternative”. Se la sfida si sposta su questo terreno, nel paese ci sono forze politiche molto più attrezzate.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali