Perché la Catalogna può rovinare il momento di grazia di Madrid
Il nervosismo di investitori e imprese di riflesso allo choc referendario comporta una minaccia per la ripresa spagnola
Roma. “Il nervosismo degli investitori in Spagna è palpabile” – afferma oggi il Financial Times in uno speciale sull’economia iberica. Il giornale britannico prende spunto da una serie di eventi economicamente rilevanti che rischiano di ipotecare il futuro benessere della Catalogna e, di conseguenza, del paese intero.
Se tre indizi fanno una prova, il quotidiano parte in ricognizione. Uno: il governo di Madrid ha rivisto le previsioni di crescita per il 2018 dal 2,6 al 2,3 per cento. Due: le aziende sono paralizzate dall’incertezza sul loro futuro in Catalogna (lo ammettono ormai apertamente i businessman locali), e l’ordine di scuderia per i gruppi imprenditoriali internazionali e locali è “rimanere alla finestra”. Si stima che circa 2 mila aziende stiano decidendo di lasciare l’area temendo un’uscita dall’Eurozona. Tre: il primo settore a risentirne in concreto è stato il turismo, con 15 mila posti di lavoro persi a Barcellona in ottobre, secondo il ministero competente, e siamo già molto al di sopra della media nazionale. I due istituti bancari più legati al territorio catalano, CaixaBank e Sabadell, hanno visto crollare i depositi bancari e a ottobre hanno deciso di lasciare Barcellona.
E' stato dunque breve e illusorio l’innamoramento di alcune decine di migliaia di attività imprenditoriali verso le velleità separatiste. L’entusiasmo della prima ora è ormai ampiamente superato. Merito della dura reprimenda di Jean-Claude Juncker in Commissione europea, che ha subito spento le istanze della Catalogna innanzitutto per un discorso di coerenza. Merito anche del netto rifiuto di Rajoy e della decisione di agire “ex lege”, che hanno fatto crollare in poche ore la determinazione delle istituzioni catalane a perseguire l’obiettivo incostituzionale.
Siamo, però, di fronte a risoluzioni temporanee che il governo dovrà tradurre presto in una politica di maggior ascolto verso la Catalogna. E i prossimi mesi saranno determinanti. Una delle ipotesi sul tavolo è dare alle istituzioni locali più potere in termini finanziari e riconoscere la Catalogna come nazione piuttosto che come nazionalità (come invece stabilisce l’articolo 2 della Costituzione spagnola). Il rischio è che i paesi baschi possano cavalcare l’onda separatista e pretendere analogo trattamento.
Spendere risorse ed energie sulle implicazioni della Catalexit, inoltre, rischia di distogliere il governo Rajoy da altri grattacapi come il livello di disoccupazione giovanile tra i più alti d’Europa, il precoce abbandono scolastico dei giovani.
Note dolenti per una Spagna che sta iniziando ad assaporare il suo periodo di grazia dopo il quinquennio di bolla immobiliare che tra 2008 e 2015 ha visto crollare i prezzi delle case (meno 35 per cento la stima degli anni bui). Proprio questo trascinò il sistema economico nel gorgo delle insolvenze dei mutui, dei cantieri abbandonati sul nascere, dei grandi fallimenti. Le banche, trascinate nella crisi dall’eccesso di passività, hanno però rivelato uno straordinario istinto di conservazione (grazie alla richiesta di soccorso di Rayoj verso l’Ue). I prezzi sono risaliti, e così pure il valore degli immobili sottostanti ai mutui ipotecari. Questo, insieme alla fiducia da parte degli investitori stranieri e al riacquisto delle sofferenze bancarie, ha rimesso in sesto i quattro istituti nazionali (Caixa, BBVA, Santander, Sabadell) facendo recuperare nell’ultimo anno un buon venti per cento nel valore patrimoniale. Godono poi di ottima salute altre due perle dell’economia spagnola alle prese con nuove leadership: Telefònica sperimenta il carisma innovatore del ceo Alvarez-Pallet, successore di Cesar Alierta, come sta facendo con Pablo Isla anche la Inditex, oggi il primo gruppo di abbigliamento al mondo.
Cresce, come nel resto d’Europa, anche il comparto auto (più 11 per cento) che ha soppiantato le costruzioni per incidenza sul pil ed è oggi al secondo posto per le esportazioni in Europa, dopo la Germania. Anche questo comparto però non può dormire sonni tranquilli visto che in Catalogna sono state prodotte nel 2016 più di mezzo milione di automobili, il 19,17 per cento della produzione nazionale (al secondo posto dopo la Castiglia). Proprio nella cittadina di Martorell, vicino Barcellona, c’è il distretto auto innovativo che nel 2018 produrrà l’Audi A1 di seconda generazione e che attualmente sforna le novità di casa Seat. Si producono componenti Seat sempre nell’area di El Prat de Llobregat e nella Zona Franca di Barcellona mentre al centro della città nascerà Casa Seat, spazio multifunzionale artistico legato al brand. Oltre alla “nazionale” Seat (costruttore spagnolo ma ormai in quota Volkswagen) sono altri nove i marchi internazionali che hanno scelto la Spagna e in particolare la Catalogna per la produzione (Mercedes, Nissan, Renault, Peugeot, Citroën, Iveco, Ford, Audi e Volkswagen).
Intanto, sul fronte finanziario, c’è da registrare l’estrema volatilità negli ultimi mesi dell’Ibex 35, l’indice azionario spagnolo con i 35 titoli a maggiore capitalizzazione, che sembra ormai il tracciato di un cuore in fibrillazione. In realtà, notano gli analisti, non siamo ancora arrivati alla drammatica vendita a catena di titoli, perché la risposta istituzionale è stata rassicurante e tempestiva. I capitali stranieri resistono e la sensazione è che la borsa tornerà a crescere quando (e se) il conflitto politico verrà definitivamente risolto. Merito della sostanziale stabilità economica di cui sopra. Ma se il caos separatista non rientrerà, secondo i più pessimisti, il risorgimento spagnolo tramonterà prima del tempo.