Dazio web(ete)
La web tax che colpisce le Pmi italiane e cristallizza la posizione di giganti come Google e Amazon
La montagna ha partorito un topolino mezzo morto. Ci avevano detto che i giganti del web sottraggono miliardi di euro al fisco italiano e minano le basi del welfare e della convivenza sociale. Non hanno colpito aziende come Google, Amazon e Apple che già hanno o avranno a breve una stabile organizzazione in Italia, ma hanno partorito un dazio che graverà sulle Pmi italiane e darà un gettito che, se va bene, sarà di 114 milioni (milioni, non miliardi!). Nella sostanza economica infatti, la soluzione approvata al Senato si configura come un dazio all’importazione di determinati servizi digitali e, come tutti i dazi, grava sull’acquirente nazionale, ossia sulle imprese italiane che acquistano quei beni e rischia di generare ritorsioni protezionistiche nei paesi d’origine delle imprese estere che vengono discriminate, in primis gli Stati Uniti.
In una delle ultime versioni dell’emendamento depositato al Senato era previsto che la tassa fosse pagata dall’acquirente, una formulazione che rendeva evidente che l’imposta è un dazio, che, come tutti i dazi, viene pagato dall’acquirente. Era sì previsto l’obbligo di rivalsa sui venditori, ma è evidente che questa era una grida manzoniana, non essendoci alcun modo per stabilire quale sia il “giusto prezzo” di un servizio digitale in assenza della tassa. Qualcuno, all’ultimo momento, deve essersi accorto che questo onere imposto agli acquirenti italiani suonava come una beffa: si volevano colpire i giganti del web e si finiva per colpire le Pmi italiane, proprio nel momento in cui queste stanno facendo grandi sforzi per entrare a pieno titolo nella rivoluzione digitale, aiutate anche dagli incentivi del piano Industria 4.0. Si è dunque corsi ai ripari e, all’ultimo momento, frettolosamente, si è scritto che la tassa sarà pagata materialmente dalle banche italiane attraverso le quali l’acquirente italiano effettua il pagamento, ovviamente “con obbligo di rivalsa”.
Questa riformulazione non cambia di una virgola la sostanza economica, nel senso che l’imposta inciderà comunque sugli acquirenti italiani, ma pone un mare di problemi pratici perché un italiano non può essere obbligato a effettuare un pagamento all’estero tramite una banca italiana; può pagare con carta di credito, in contanti o tramite una banca estera, il che rende probabile una procedura di infrazione europea. Inoltre, la banca del soggetto pagatore non conosce nulla, se non l’Iban, del soggetto a favore del quale viene fatto il pagamento; non è quindi in condizione di dire se tale soggetto è un’impresa web che produce quei beni dematerializzati che si vorrebbero colpire. Un per uscirne forse ci sarebbe, ma richiede che si torni a esplicitare ciò che si è voluto nascondere e cioè che la tassa è un dazio che grava sull’acquirente. Solo l’acquirente infatti può fornire alla banca le informazioni necessarie per effettuare il pagamento della tassa, ossia cosa sta acquistando e da chi. Ma questo significa che la norma deve essere cambiata per imporre obblighi e relative sanzioni alle imprese italiane, le quali su tutti i loro pagamenti dovranno dichiarare al fisco e alla banca le informazioni necessarie.
La norma discrimina fra le imprese italiane e tutte le imprese estere, comprese quelle comunitarie, il che configura una violazione molto grave dei principi di base su cui si fonda il mercato unico europeo; qui una procedura di infrazione contro l’Italia appare pressoché certa. In un goffo tentativo di evitare la censura europea, la proposta originale, che applicava la tassa solo alle imprese estere, è stata emendata nel senso di applicare la tassa del 6 per cento sul fatturato a tutte le imprese digitali, italiane ed estere, salvo poi rendersi conto che in questo modo si finiva per imporre una sorta di doppia tassazione alle imprese italiane che operano nel settore; al problema si è posto rimedio consentendo a queste ultime di portare la tassa in detrazione dalle imposte sui redditi. Il che però ripropone il tema della discriminazione a sfavore di tutte le imprese estere, comprese quelle europee, e in più penalizza le tantissime piccole imprese italiane che operano nel settore e non hanno utili a sufficienza per compensare l’imposta del 6 per cento.
Posto che le grandi aziende del web non saranno colpite da questa norma, chi rientrerà nel decreto ministeriale che dovrà essere fatto entro il 30 aprile 2018? Sulla base del tenore letterale della norma (“servizi forniti tramite Internet… la cui natura rende la prestazione essenzialmente automatizzata…”) saranno tassati, ad esempio, i ricavi da abbonamenti al Foglio online, i ricavi da pubblicità sul Foglio online, gli abbonamenti al traffico dati di Tim o Vodafone, i videogiochi online e persino i bonifici online. Questi sono operatori residenti che, se va bene, potranno compensare la nuova imposta. Poi ci sono gli operatori esteri che invece non possono compensare l’imposta: per esempio, i giornali esteri online e i nuovi e ancora sconosciuti concorrenti di Google, di Apple e di Amazon ecc. che essendo nati da poco ancora non hanno una stabile organizzazione in Italia. Insomma la norma favorisce i grandi operatori già presenti sul mercato e ne cristallizza le posizioni dominanti. Se non bastasse, produrrà una disintermediazione dell’Italia perché qualunque media impresa italiana ha la possibilità di acquistare pubblicità o spazio cloud da chiunque nel mondo tramite una branch estera. Insomma, per quanti sforzi si facciano, la web tax in un paese solo è un nonsenso.
Giampaolo Galli è un economista e deputato del Pd