Perché ci confermiamo un popolo di tassatori (anche virtuali)
Il fisco non può affrontare l’economia digitale costruendole recinti attorno. L’attualità della lezione di Einaudi
Alle grandi virtù nazionali, di mussolianana memoria, scolpite sul frontespizio del Palazzo della Civiltà Italiana all’Eur, si dovrebbe aggiungere che siamo anche un popolo di gabellieri. Primi tra i quattro paesi che soltanto a settembre sollecitavano un’azione dell’Unione europea, stiamo per entrare a passo di corsa, anche se con direzione incerta, nell’inesplorato mondo dell’imposta digitale: l’emendamento alla legge di Bilancio che introduce la digital tax – dopo aver subìto nei giorni scorsi un rimaneggiamento non marginale – è stato approvato in commissione Bilancio del Senato.
Una premessa: il problema della Base erosion and profit shifting (Beps), in volgare arbitraggi fiscali tra paesi, non è un’invenzione della politica italiana od europea: esiste ed è molto rilevante. Il Financial Times aveva pubblicato i dati dei profitti dichiarati e delle imposte effettivamente pagate nel Regno Unito da due società di servizi internet, Netflix e Ebay: cifre molto ingenti. Secondo Mediobanca, il risparmio di imposta ottenuto dalle grandi imprese del web operanti in Europa attraverso gli arbitraggi fiscali sarebbe di 46 miliardi di euro nei cinque anni 2012-16. Di fronte a fenomeni di questa entità i protocolli internazionali per la tassazione rivelano la loro inadeguatezza. Dunque qualcosa bisogna fare: anche nella riforma fiscale di Trump è previsto di contrastare l’erosione attraverso una tassa del 15 per cento sui ricavi esteri delle imprese e due giorni fa anche il cancelliere dello Scacchiere ha annunciato che intendono muoversi in questa direzione (a partire dal 2019).
Ma le certezze finiscono qui. Ci sarebbe la strada degli aiuti di stato per scoraggiare la concorrenza fiscale: è una strada promettente ma resta episodica e inevitabilmente lenta. Molto difficile perseguire la strada maestra: quella della cooperazione internazionale: non vi è un vero incentivo a cooperare tra paesi, i confini dell’Ue sono poco rilevanti, i meccanismi decisionali lenti e farraginosi. La soluzione fiscale sembra inevitabile, ma è terreno scivoloso. Einaudi raccomandava che “gli uomini riuniti nei consigli chiamati a decidere le scale delle imposte siano saggi e prudenti, guardino all’insieme dei tributi e non a uno solo, conoscano la ripartizione dei redditi nel luogo e nel tempo considerati…”. Dunque saggi, prudenti e conoscere la ripartizione dei redditi (cioè dove sono prodotti): siamo lontani.
Tre approcci sono possibili: ricorrere ad un “contatore”, cioè una misurazione fisica dei contenuti digitali delle varie attività economiche (ma non tutti i bit sono uguali, il contatore dovrebbe essere differenziato per tipologia di bit: classificazione ardua); modificare le condizioni che definiscono una stabile organizzazione per arrivare a sottoporre le imprese digitali all’imposta sulle società ma con la difficoltà di determinare solo in via induttiva i profitti che sono denunciati in altri paesi a più bassa tassazione; introdurre una ritenuta d’acconto a titolo definitivo sugli importi corrisposti a non residenti su transazioni concluse “in remoto” con soggetti residenti se l’operatore non residente mostra una significativa presenza economica (ancorché non fisica). L’emendamento alla legge di Bilancio combina il rafforzamento della definizione di stabile organizzazione con l’introduzione dell’“imposta (aliquota 6 per cento) sulle transazioni digitali relative a prestazioni di servizi effettuate tramite mezzi elettronici”.
Primo fondamentale dubbio: per arginare il fenomeno dell’arbitraggio fiscale, è opportuno stabilire la differenza tra digitale e non digitale? Tutto si sta digitalizzando: siamo proprio certi che il discrimine rispetto alla prospettiva fiscale questa sia praticabile e robusto nel tempo? Se domani sarà venduta energia elettrica al cliente finale da parte di un’impresa che ha sede fiscale in Irlanda, anche quella attività sarà digitale? In realtà il problema è come il fisco si deve attrezzare di fronte alla digitalizzazione dell’economia e non lo si risolve costruendo recinti intorno a ipotetiche attività digitali. Si dice che con la digital tax si vuole compensare, “livellare”, il peso fiscale tra imprese che pagano il giusto e quelle che pagano “poco”; esigenza giusta ma stiamo puntando a risolvere un problema enorme: quello dell’equità orizzontale. E non ci sarebbe allora anche il problema di livellare il peso fiscale tra un ipotetico meccanico con la sua officina “artigianale”, contribuente leale e disciplinato, e una grande multinazionale automobilistica con sede in Olanda che si esercita con successo in un Aggressive Tax Planning?
L’imposta digitale tenta di risolvere anche un altro enorme problema: quello della localizzazione del profitto. E’ il problema dei prezzi di trasferimento e quindi di distribuzione dei margini lungo la catena del valore: i nuovi modelli di business pongono in termini del tutto nuovi il tema dell’individuazione della quota di profitti che può ritenersi generata in ciascuna parte della catena del valore e in ciascuna giurisdizione. L’introduzione della ritenuta d’acconto, prova a risolverlo con un colpo d’ascia. E poi qualche altro dubbio. Perché l’imposta solo sui servizi? E che dire dell’onere di segnalazione delle transazioni effettuate all’Agenzia delle entrate scaricato sugli acquirenti (solo le imprese, altra stranezza)? Si introduce un’imposta senza indicare a quali attività si applica (“le prestazioni di servizi sono sono individuate con decreto del ministro”); non c’è il rischio che la base imponibile diventi straordinariamente ampia in prospettiva? E non c’è il rischio di arbitrio (“la prestazione essenzialmente automatizzata”: che cosa vuol dire essenzialmente?). L’Ocse consiglia anche non recintare (ring fence) la digital economy a scopo di tassazione e l’imposta si muove nella direzione opposta.
Una definizione unilaterale di stabile organizzazione quale valenza ha in sede internazionale? Non ci dobbiamo preoccupare della traslazione? In mercati oligopolistici non sarà piena ma possiamo aspettarci che una parte di quel 6 per cento, tenuto anche conto dei costi delle segnalazione in capo agli utenti che acquisiscono i servizi, ricadrà sui consumatori italiani. E infine, la digital tax aumenterà la pressione fiscale (anche se sembra ci sia qualche preoccupazione sugli introiti dell’Iva a cui l’introduzione della digital tax non sembra estranea). Nella discussione (italiana ma anche europea) non si menziona che a fronte dell’introduzione di questa imposta ne verranno ridotte altre – anzi si progetta già come spendere quanto verrà incassato. C’è bisogno di aumentare la pressione fiscale in Italia, in Europa? Se almeno gli introiti dell’imposta digitale fossero destinati a un fondo per la riduzione del debito pubblico e non a nuove spese! Ma, anche qui, in tempi di elezioni ridurre il debito pubblico è l’ultima delle preoccupazioni. Memori delle prediche di Einaudi, dovremmo forse studiare e discutere un po’ di più prima di introdurre una nuova imposta. Ma quelle di Einaudi, si sa, sono prediche inutili. La buona notizia è che pare che l’imposta decorra dal 2019 e quindi il nuovo Parlamento avrà un po’ di tempo per affinarla.
Alfredo Macchiati, Università Luiss di Roma