Culle vuote e giovani più poveri
Il declino del nostro paese è anche il prodotto dell’egoismo dei più anziani
Due fenomeni strutturali condizionano oggi pesantemente l’economia e la società italiane, ma anche quelle di altri paesi europei: l’invecchiamento demografico e l’ampliarsi del divario tra la posizione economica dei giovani e quella degli anziani. L’invecchiamento dipende da un dato positivo, ossia la riduzione della mortalità a tutte (o quasi) le età, e da un dato negativo, ossia la diminuzione delle nascite.
In particolare, secondo i dati pubblicati ieri dall’Istat, tra il 2008 e il 2016 le nascite sono diminuite di oltre 100 mila unità, per effetto della diminuzione della propensione ad avere figli ma soprattutto per effetto (per i tre quarti della differenza) dello stesso invecchiamento della popolazione femminile. Meno figli oggi vuol dire meno giovani lavoratori domani, e pertanto (a parità di altre condizioni) meno contributi da utilizzare per pagare pensioni e altri trasferimenti o servizi a una popolazione anziana in costante crescita. A meno, ovviamente, di aumentare la quota di immigrati e di dar loro istruzione, lavoro e indipendenza economica, una prospettiva quasi obbligata per rompere il circolo vizioso ma della quale – soprattutto in campagna elettorale – si preferisce non parlare o discutere soltanto in maniera apocalittica.
Quanto al divario economico, i giovani sono oggi meno occupati degli “anziani”, hanno redditi più precari e, conseguentemente, una ricchezza di gran lunga inferiore, inclusa ovviamente la “ricchezza pensionistica” che è frutto, nell’attuale nostro sistema contributivo, proprio dei contributi versati sul reddito da lavoro e non di trasferimenti poco trasparenti e poco equi tra categorie e classi di età. Pur avendo più istruzione, i giovani non riescono, in una economia sempre più digitalizzata, a valorizzare il loro capitale umano, spesso utilizzato in attività ben al di sotto del potenziale. Così, mentre la povertà riguarda circa il 4 per cento degli over 65, essa raggiunge il 12 per cento tra i giovani sotto i diciotto anni. E si tratta di un dato in costante aumento nell’ultimo decennio: dal 4 per cento di poveri nella classe di età 18-34 del 2005 si passa al 10 per cento del 2015.
L’impoverimento dei giovani rispetto agli anziani è il contrario del progresso di una società, e ne segna il declino. Può dipendere dalla tecnologia (la “digital economy” ha indubbiamente polarizzato il mercato del lavoro, creando pochi posti di alto livello e alta remunerazione e spingendo molti giovani verso occupazioni di qualità e reddito relativamente bassi); dalle rigidità del mercato del lavoro (ai lavoratori anziani sono date ancora oggi, pure dopo il Jobs Act, garanzie che ai giovani sono state invece sottratte). Anche il brusco aumento dell’età di pensionamento disposto dalla riforma del 2011 ha giocato un ruolo ma non perché il lavoro sia, come spesso erroneamente si tende a far credere, una “quantità fissa”, bensì perché le“ politiche di attivazione” sono rimaste colpevolmente indietro nel nostro paese, sempre troppo concentrato sull’idea di aggiustare attraverso il sistema previdenziale i mali della nostra economia. E così noi ereditiamo dal passato gli effetti nefasti di regole pensionistiche che hanno implicato sistematicamente un eccesso di prestazioni sui contributi, con la differenza generalmente finanziata a debito, e quindi posta a carico delle generazioni giovani e future.
Se tutti questi fattori hanno un peso, la responsabilità maggiore sta nella miopia politica, rafforzata dall’età sempre maggiore dell’elettore mediano, e dalla scarsa difesa che, almeno nell’interpretazione di certe sentenze della Corte costituzionale, la nostra carta fondamentale dà degli interessi delle generazioni più giovani. C’è stata una tendenza a interpretare i “diritti sociali” (specialmente quelli previdenziali) come diritti acquisiti, senza considerare che quando questi diritti sono tutelati non già in uno scenario di crescita, dove tutti possono guadagnare qualcosa, ma a spese di qualcun altro, si realizza spesso un trasferimento di ricchezza contrario all’equità, ossia dai più poveri ai più ricchi.
Di fronte a questi scenari, molti evocano (e non solo in Italia) la “guerra generazionale”. Il termine guerra è forte; evoca scenari sanguinosi in cui i giovani morivano al fronte combattendo, senza forse comprenderne le ragioni, contro giovani del tutto simili a loro. Oggi il divario non è sintomo di guerra bensì espressione di egoismo. E l’egoismo non si cura con le sole politiche economiche, anche se queste sono necessarie per rilanciare stabilmente lo sviluppo e con esso la domanda e la remunerazione del lavoro.
L’egoismo si cura soprattutto con l’esempio che proprio dalla classe politica e dalla classe dirigente dovrebbe venire. La rinuncia a qualche privilegio non aggiusterebbe i conti intergenerazionali, ma aiuterebbe a ricomporre una società fortemente divisa e a renderla più inclusiva. Anche senza una vera guerra tra generazioni, la politica deve comprendere l’insostenibilità della situazione presente, anziché continuare ad alimentarla con promesse elettorali che, se realizzate, ci porterebbero nuovamente sull’orlo di un baratro finanziario. Uno scenario già verificatosi che non dovrebbe ripetersi.