Il lavoro non ha bisogno di assistenzialismo ma di politiche attive
Più che di pensioni e articolo 18, occupiamoci della trasformazione del mercato
Da mesi ormai si discute quotidianamente dei provvedimenti previsti nella prossima legge di Bilancio. Inizialmente il dibattito si è concentrato sui giovani, nel corso del tempo si è poi spostato sulle pensioni, poco si è detto su chi oggi si trova nel mondo del lavoro e sulle sue condizioni. E quando si parla di mercato del lavoro si discute di dati e numeri in modo completamente sconnesso dalle proposte che questi sembrano generare. L’esempio principale è quello del dibattito sull’articolo 18 che sembra essere un convitato di pietra della politica italiana, nonostante il mondo nel frattempo prosegua, il lavoro cambi e i percorsi professionali anche. Infatti a fronte di dati, vedremo se oggi Istat confermerà il trend, che mostrano come il numero di contratti e occupati a tempo determinato sia in costante aumento (più 15 per cento nell’ultimo anno), nonostante gli obiettivi del Jobs Act fossero altri, la risposta è nella reintroduzione per tutti dell’articolo 18. Come se maggiori tutele contro i licenziamenti fossero oggi la soluzione per coloro che si trovano ad affrontare carriere professionali discontinue, caratterizzate da un susseguirsi di contratti diversi tra loro.
Ma è chiaro che parlare di articolo 18 è semplice, si utilizza un termine conosciuto, si riscaldano le coscienze di un popolo che collega facilmente il concetto al mondo dei diritti e delle tutele. Molto più complesso invece parlare di politiche attive del lavoro. E pensare che sono passati ormai vent’anni dall’introduzione in Italia delle agenzie per il lavoro, proprio con l’obiettivo di modernizzare e rendere più efficiente il mercato del lavoro, diversificandone attori e strategie, come si ricorderà domani a Bergamo in un convegno organizzato da Adapt, Università di Bergamo e Assolavoro proprio su questo tema.
Ma non sono pochi i segnali che ci mostrano come il mercato del lavoro stia cambiando e si stia dirigendo verso dinamiche di transizioni continue, almeno nei primi anni di lavoro. Perfino i contratti a tempo indeterminato oggi hanno una durata inferiore rispetto al passato, con la maggioranza dei contratti che dura meno di 5 anni e le dimissioni che sono tornate ad aumentare negli ultimi mesi in concomitanza con la lieve ripresa occupazionale. Oggi non è strano trovare lavoratori, specialmente giovani, che progettano carriere che si compongono di periodi di lavoro dipendente, periodi di formazione, periodi di lavoro autonomo, periodi di riqualificazione e altro ancora. Ma spesso questi sono i casi più virtuosi, quelli che hanno bisogno solo in modo marginale delle politiche attive. Ben più urgente è il caso di tutti quei lavoratori che, anche a fronte delle minori tutele in caso di licenziamento, si trovano a cambiare spesso il lavoro e per i quali il periodo di transizione è sempre più una condanna e non una opportunità. Questo perché manca un sistema di politiche che contribuisca a generare meccanismi di attivazione delle persone, che sono spesso intrappolate nell’illusione, di cui hanno poca colpa, che gli ammortizzatori sociali risolveranno tutto. Ma i dati sull’aumento costante dei disoccupati over 50 ci mostrano l’opposto, pian piano gli ammortizzatori si esauriscono e le persone devono trovare un nuovo lavoro.
Ma non è solo la condizione attuale del mercato del lavoro che pone interrogativi. Sono anche gli scenari che ci si pongono davanti a dirci che senza processi di formazione e riqualificazione continua sarà sempre più difficile rimanere nel mercato del lavoro senza finire in quegli angoli di lavoro sottopagato che purtroppo esistono ed esisteranno. Perfino la manifattura con l’Industria 4.0 richiederà aggiornamento professionale continuo e spingerà i lavoratori ad intraprendere percorsi di carriera caratterizzati da nuove esperienze e nuovi lavori. E la sempre minor differenza tra i settori produttivi produrrà, come molti studi già mostrano, continui trasferimenti di lavoratori da un settore all’altro. Ma la sfida non è quella di portare le persone a convivere con una costante situazione di precarietà, ma quella di creare la stabilità nella transizione e per questo occorre un sistema di politiche attive maturo, diffuso ed efficiente. E il primo passo perché questo avvenga è iniziare a liberarci dalla logica emergenziale con cui vengono messe in gioco, solo quando ormai i problemi ci sono e non si hanno più soluzioni per risolverli.