Perché la minaccia degli irresponsabili dell'Ilva può diventare un boomerang
Dopo un incontro con il ministro Calenda, il sindaco di Taranto si dice disponibile a ritirare il ricorso. Ma il movente dell'azione è chiaro e richiede una risposta urgente
I termini della questione sono noti. Un improvvido ricorso al Tar di Regione Puglia e comune di Taranto contro il decreto adottato dal governo di Roma, per la soluzione della crisi della più importante acciaieria d’Europa, può centrare il bersaglio della “dissuasione” della cordata impegnata nel rilancio dell’Ilva. Il sindaco, Rinaldo Melucci, sembra ora disponibile a ritirare il ricorso, il presidente Emiliano no. Al netto della cronaca, e dei suoi rivolgimenti, quel che qui si sottolinea è l’uso dello strumento a mo’ di minaccia. Se il ricorso non fosse ritirato e passasse, il paese rischierebbe di perdere 5 miliardi in interventi strutturali e, tra diretti e indiretti, 20 mila posti di lavoro. Bel colpo. Dopo i vaccini, il Tap, all’insegna di uno sfrenato populismo, un nuovo grandioso risultato: mettere in fuga gli investitori, mostrando, nel modo più plateale, l’ostilità delle istituzioni locali su di un progetto industriale sul territorio.
Il profilo più surreale della vicenda è nell’affermazione, addirittura ostentata, con cui si è tenuto a sottolineare che, con il ricorso al Tar, “il governo è in un cul de sac”. Superflui i commenti. La forza e la carica espressiva della formula usata è in grado di svelare il movente dell’azione intrapresa. Le Istituzioni (quelle con la maiuscola) non possono restare insensibili alla inverosimile paralisi sul caso Ilva, irresponsabilmente “provocata”. Occorre repentinamente reagire, ponendo al centro delle decisioni, nel rispetto dei ruoli e delle leggi, la drammaticità del momento della gente di Taranto, schiacciata nella tenaglia: “La fabbrica uccide, senza fabbrica si muore di fame”. Inevitabile salvaguardare l’ambiente, inimmaginabile la chiusura degli impianti. L’espressione usata, “cul de sac”, per paralizzare la costruttiva iniziativa di Roma, rende evidente l’abuso del ricorso al processo, perpetrato dai responsabili dell’azione intrapresa. A esser garbati, semplicemente eccentrica l’idea di un’acciaieria a gas, prospettata anche da Emiliano, per contrastare le condivisibili misure del governo. Non supporta la credibilità del paese il perpetuarsi degli interventi “a gamba tesa” di coloro che, certi del fatto di non pagare dazio in proprio, si sentono abilitati a tutto, per il fatto di non essere stati coinvolti in una decisione. Condotte siffatte non sono esercizio di democrazia – invocata spesso a sproposito – ma sfoggio di uno strano miscuglio di inutile, deleteria e ingiustificata arroganza, mista ad impotenza.
Rappresenta sicura dimostrazione della capacità di reazione del sistema, nella sua unitarietà, eventuale repentina risposta del Tar all’improvvida azione legale di cui si è innanzi e, nel contempo, l’immediata assunzione di appropriate iniziative di messa a punto dell’assetto istituzionale dei diversi livelli di governo, negando spazio alle vuote velleità di chiunque vien mosso da proposto di sbandierare smanie di protagonismo. Una risposta così congegnata, alle vicende di cui sopra, rende evidente, anche a chi guarda d’oltre confine, che il sistema è in grado di funzionare e che, inoltre, ha lucidità, forza ed energia per tutelare l’interesse generale, ponendo repentino riparo alle disfunzioni che possono emergere al suo interno. E’ il buon senso a suggerire la sollecita risposta dell’organo di giustizia adito dai politici pugliesi, evitando i “giri di valzer” all’italiana, con questioni di competenza, di solito sollevate, quando le decisioni appaiono scomode. Gli interessi in gioco sono rilevanti e di portata generale: l’Italia rischia 16 miliardi, vale a dire 1 punto di pil. Su un diverso piano, altra azione, ampia ed incisiva, di messa a punto dell’assetto dei vari livelli di governo. L’attuazione della decisione richiede molta fatica; il paese, però, ne ha bisogno. Necessario introdurre nel sistema, in maniera repentina, la clausola di supremazia, come sollecitato dal ministro Calenda. Tanto per far si che le autorità locali non siano, mai più, nelle condizioni di agire col proposito di “sgambettare” il governo centrale. Il caso Ilva rende anche indifferibile la ridefinizione, con assennatezza e sistematicità, di compiti, funzioni e ruoli di stato, comune e regioni, prefigurando, per quanto possibile, competenze esclusive e ponendo particolare cura nell’identificare, con chiarezza, centri di decisione e di responsabilità. E questo senza dimenticare che l’esplosione del nostro debito pubblico affonda le radici nell’istituzione proprio delle regioni, la cui autonomia va sì riaffermata, con la previsione, però, di limiti alla sua capacità di spesa, a partire da quella per gli organi elettivi e rappresentativi.