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La montagna incartata

Stefano Cingolani

Rapporto sul debito pubblico. Un cumulo di miliardi grava su tutti noi ma nessuno ne vuole parlare

Pier Carlo Padoan tira un sospiro di sollievo perché ha evitato il peggio: il fiscal compact non entrerà nei trattati a partire dal prossimo primo gennaio, ma verrà inserito in una direttiva della Commissione europea la quale prevede anche un’applicazione flessibile del patto che obbliga di portare il debito pubblico al 60 per cento del prodotto lordo tagliandolo di cinque punti percentuali l’anno. Dunque, una boccata d’ossigeno, anche perché la scadenza viene spostata a metà del 2019, quando si giocheranno molte carte sullo scacchiere europeo, non ultima la successione a Mario Draghi alla guida della Banca centrale. Un successo tattico con evidenti ricadute elettorali: sia il Movimento 5 stelle sia la Lega avevano preparato le loro batterie contro il fiscal compact, l’Unione europea, il Pd che asseconda il complotto pluto-giudaico-massonico per affamare l’Italia. Tuttavia, la bomba a orologeria non è affatto disinnescata. E’ bastato l’annuncio che si voterà il 4 marzo per mettere in fibrillazione le borse e scuotere lo spread: i mercati, finora distratti, hanno riacceso i riflettori sul debito pubblico italiano.

 

Lo ha ricordato a chi fa il finto sordo Christine Lagarde, la quale, dal suo osservatorio al vertice del Fondo monetario internazionale, teme che l’attesa svolta di politica monetaria negli Stati Uniti e nell’Unione europea possa innescare una nuova ondata speculativa sui titoli dei cosiddetti “debiti sovrani”. “Riparate il tetto finché c’è il sole”, ha ammonito, bisogna approfittarne prima che sia troppo tardi. Intendiamoci, i tassi d’interesse saliranno in modo graduale (e negli Usa sono già aumentati) e non è all’orizzonte nulla di paragonabile alla crisi greca del 2010 e a quella italiana del 2011, anche perché oggi esistono salvagente e paracadute che prima non c’erano, tuttavia le tempeste finanziarie sono imprevedibili e la storia, fatta di interessi grassi e grumosi, contraddice spesso la levigata perfezione della logica. Il debito pubblico è la montagna che schiaccia le potenzialità di crescita dell’Italia che sono tante, più di quel che pensano i declinisti, come dimostrano il mini-boom dell’industria manifatturiera, il balzo delle esportazioni, l’aumento degli occupati. Tuttavia nessuno osa scalare quella montagna tutt’altro che incantata. Silenzi politici, ipocrisie intellettuali, fughe in avanti, tuffi nell’ignoto, se ne sentono di tutti i colori senza che ci sia sul tavolo una proposta coerente e realizzabile.

 

Claudio Borghi Aquilini, responsabile economico della Lega, ha le idee chiarissime: “Il debito pubblico è una balla” e non se la prende solo con il governo e la maggioranza, ma anche con Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera, il quale ha “osato” proporre “un abbattimento” di tre decimali di punti l’anno. Il problema è la crescita, quindi mettere in atto politiche espansive anche se aumentano il disavanzo e il debito. E i vincoli europei? La risposta della Lega non si distingue in questo da quella del Movimento 5 stelle: “Tanto peggio per i trattati; liberiamoci dal debito, fuori dall’euro”. E’ vero che negli ultimi tempi Lugi Di Maio ha sfumato: il referendum resta un punto fermo, ma diventa consultivo. Tuttavia non c’è stata (lo dimostrano i dibattiti nel parlamento parallelo dei talk show) nessuna revisione. Nel frattempo si è fatto avanti tra le fila dei pentastellati, nei giornali, in televisione e, quel che più conta, nella testa e nel cuore di Beppe Grillo un economista, Marcello Minenna, già assessore della giunta Raggi a Roma (anche se è durato lo spazio di un mattino), nonché funzionario pubblico in quanto membro della Consob, la commissione che dovrebbe controllare che il gioco della Borsa si svolga in modo corretto. Diventato il più ascoltato consigliere del comico, e considerato già ministro ombra del Tesoro, propone di “mutualizzare pienamente i rischi del debito pubblico”, trasformando il fondo salva stati (il Meccanismo europeo di stabilità) nel “garante unico dei debiti”, in modo graduale e – ha spiegato in una intervista alla Repubblica - non gratis: “I paesi beneficiari della garanzia verserebbero al Fondo contributi pari al prezzo di mercato del proprio rischio. A differenza degli Eurobond, con questo schema più debito fai e più contributi devi pagare all’Esm e questo è un chiaro disincentivo alla fiscalità irresponsabile. E l’Esm potrebbe poi fare investimenti massicci per la convergenza economica dell’Eurozona. In alternativa la Bce dovrebbe dichiarare un obiettivo di spread nullo o minimo e impegnarsi a ottenerlo con ogni mezzo”. Minenna sostiene che lo spread non è la conseguenza della diversa percezione del rischio sui titoli emessi, ma “è il risultato di precise politiche delle istituzioni europee” sostanzialmente ispirate dalla Germania che in questo modo ha potuto affermare la propria egemonia”.

 

Si tratta di una impostazione più sofisticata, che non implica né l’uscita immediata dall’euro né la ricusazione del debito o la sua “ridenominazione” alla Varoufakis. Ma parte dall’idea che un sistema monetario integrato debba convergere verso un unico tasso d’interesse. Ipotesi che non trova riscontro nemmeno negli Sati Uniti dove i titoli emessi dai singoli stati (obbligati peraltro al pareggio del bilancio) vengono trattati sul mercato liberamente e non sono acquistati dalla Federal Reserve. Nella zona euro, invece, la Bce e le banche centrali nazionali hanno comprato e detengono una gran quantità di titoli pubblici allo scopo di fare da calmiere. Minenna propone di compiere un passo ulteriore: abolire di fatto la separazione tra Banca centrale e governi, tornando al primato del principe sull’argentiere. Lasciamo sullo sfondo ogni dibattito ideologico tra stato e mercato e chiediamoci come può funzionare. Intanto presuppone che l’Eurolandia possa essere un sistema chiuso che regola da solo i propri conti. Cosa accadrebbe all’euro sul più ampio mercato dei cambi se la Bce decidesse di stampare moneta senza limiti (perché di questo si tratta quando la banca centrale acquista titoli di stato) per pagare i debiti sovrani?

 

Tutte le proposte che circolano finora sono legate da due fili conduttori: cercare ogni escamotage per non pagare i propri debiti e tornare alla sovranità nazionale della quale la moneta è l’espressione. In realtà, entrambe le scorciatoie portano in un vicolo cieco. E’ diventata popolare anche grazie ai talk show televisivi l’idea di creare una valuta parallela. In realtà ci sono molte varianti, dalla moneta fiscale ai bonus comunali che piacciono in particolare ai pentastellati, mentre Silvio Berlusconi ha persino evocato l’èra non certo fausta del dopoguerra quando circolavano le American lire. Il leader di Forza Italia ha parlato di pagare in euro gli scambi con l’ estero e in nuove lire quelli interni con il doppio svantaggio da un lato di usare una valuta forte penalizzando le esportazioni e dall’altro di scontare all’interno una crescente inflazione perché nessuno accetta una moneta che non sia pienamente convertibile senza un premio al rischio (quindi svalutandola). Ma il bello è che l’effetto sul debito pubblico non sarebbe affatto positivo. Lo ha spiegato la Banca d’Italia in una nota tecnica. La moneta fiscale non ha valore legale e non può servire allo stato per liberarsi dei propri debiti senza violare i trattati (insomma sarebbe un altro modo di uscire dall’euro), in ogni caso rappresenta una passività del governo quindi aumenta il debito (come accade con le monete metalliche emesse che hanno corso legale) e non è meno costosa dei titoli di stato, anzi.

 

Nella storia ci sono solo due grandi esempi di monete fiscali: la Germania del 1933 e la California del 2009. Lo ricorda la Banca d’Italia. “Il governo tedesco creò una società (Mefo, società per la ricerca in campo metallurgico) che emetteva cambiali garantite dallo stato per pagare i fornitori statali. Esse potevano essere convertite presso la Banca centrale tedesca in moneta con corso legale a un valore inferiore a quello nominale. Sebbene questa moneta non costituisse quindi un debito dello Stato, era chiaramente un debito della società controllata”. Il Cancelliere allora era Adolf Hitler, il Reichstag era stato appena incendiato e alle elezioni il partito nazionalsocialista aveva ottenuto il 43 per cento. Nel 2009, a seguito di una crisi di liquidità determinata dalla mancata approvazione del bilancio, lo Stato della California utilizzò delle vere e proprie cambiali come mezzo di pagamento nei confronti di dipendenti pubblici e fornitori. Si trattava di titoli con scadenza a 3 mesi e tasso di rendimento pari a oltre il 15 per cento. Nella prima settimana le banche convertirono queste cambiali in depositi (trattenendo gli interessi); successivamente si rifiutarono di accettarle. Si creò un mercato secondario in cui queste erano scambiate a un prezzo assai inferiore al valore facciale (a causa della loro illiquidità e del rischio di default dell’emittente). La Securities and Exchange Commission (Sec), l’autorità di vigilanza dei mercati finanziari analoga alla Consob, emise un comunicato a tutela di chi aveva ricevuto pagamenti tramite cambiali affermando che queste erano da considerarsi del tutto equivalenti ai titoli di debito emesso dal governo. Due clamorosi fallimenti (a parte ogni considerazione squisitamente politica nel caso tedesco). Se la storia fosse davvero maestra di vita, dovrebbe insegnare che prima o poi i conti vanno regolati.

 

Il debito pubblico non è una entità astratta, una pura relazione monetaria come vorrebbero i negazionisti. Al contrario, è la conseguenza di comportamenti economici e scelte politiche che provocano profondi scossoni sociali. Lo spiega molto bene l’economista Richard Wagner, allievo di James Buchanan, lo studioso che con la teoria delle scelte pubbliche ha rivalutato la scuola italiana di scienza delle finanze a cavallo tra Otto e Novecento (Antonio De Viti De Marco in particolare). In un sistema autocratico è il sovrano a creare il debito, in un sistema democratico, tanto più se policentrico, esso è il frutto della relazione complessa di soggetti diversi, di scelte politiche centrali e decentrate, di comportamenti individuali e collettivi, dei gruppi di pressione, delle lobby, dei sindacati. Niente interpretazioni sbirresche o giudiziarie: non c’è un grande ladro che ha depredato il popolo e affamato le generazioni future. Nemmeno Bettino Craxi o il Pentapartito (è questa la lettura secondo Mani pulite) anche se negli anni Ottanta il debito pubblico italiano ha compiuto un balzo dal 63 al 105 per cento del prodotto lordo. Se vogliamo ragionare alla Wagner dobbiamo concludere che il debito è stato la compensazione monetaria delle riforme, ha dato l’illusione che non dovessero essere pagate, per lo meno non quando entravano in funzione. Riforme come pasti gratis, un abbaglio che ha accomunato l’opposizione, ma è stata coltivata ben volentieri dalle forze al governo.

 

La riforma delle pensioni con un sistema a ripartizione che scarica sui contribuenti (o sul debito pubblico) la differenza tra contributi versati e assegno percepito; la sanità (quante regioni ancor oggi hanno i conti in pareggio?); investimenti gonfiati e mal realizzati (le cattedrali nel deserto del Mezzogiorno); dipendenti statali, regionali, provinciali, comunali, cresciuti in funzione clientelare, sindacalizzati, con contratti equivalenti a quelli privati, ma con il posto a vita; la cassa integrazione straordinaria che grava sul bilancio pubblico e ha tenuto in vita imprese zombie. Gli esempi di come ha funzionato lo stato assistenziale riempiono una lunga lista. Il debito sale già di circa trenta punti percentuali rispetto al prodotto lordo negli anni Settanta, poi si gonfia quando le riforme vanno a regime. Ciò coincide con una impennata anomala dei tassi d’interessi nei primi anni Ottanta rialzati dalla Federal Reserve e dalle banche centrali occidentali per spegnere l’iperinflazione innescata dai costi del petrolio e dagli aumenti salariali. Molti e non solo nella Lega e nel M5s accusano il divorzio, cioè la caduta del vincolo che costringeva la banca centrale a coprire comunque il debito, ma la verifica dei fatti dice che non c’è una relazione diretta. La politica monetaria è stata solo un’aggravante, perché se si guarda alla dinamica delle entrate fiscali si vede che le imposte, per quanto sempre crescenti, non sono mai state in grado di coprire le spese. Così le riforme sono state coperte con il debito pubblico.

 

I più anziani ricordano il “Bot people”, cioè i possessori dei buoni ordinari del tesoro. C’è stato un periodo in cui gli alti rendimenti dei titoli di stato hanno provocato una redistribuzione della ricchezza a favore dei redditieri, ampi ceti sociali che si sono alimentati grazie al buoni del tesoro. Ciò è andato a scapito delle generazioni future? La questione è controversa, i teorici delle scelte pubbliche non condividono la convinzione molto comune di uno scambio ineguale tra vecchi e giovani. Tuttavia l’esigenza di finanziare il debito ha penalizzato gli investimenti produttivi e ridotto il potenziale di crescita nel lungo periodo. Non è un caso che il tasso di investimento, pubblico e privato, si sia ridotto. Del resto, una stagnazione della crescita accompagnata da una riduzione generale dei prezzi (deflazione) è il costo pagato dal Giappone dove la Banca centrale stampa moneta per coprire un debito salito oltre il 200 per cento del pil. Chi continua a proporre Tokio come esempio virtuoso di sovranità monetaria ed economica, dovrebbe riflettere sui risultati del modello nipponico. L’Italia dei rentier è rifiorita proprio con i Bot people, complici il bazar politico e il bazar del mercato, come li chiamava un secolo fa Maffeo Pantaleoni. Due choc esterni, la caduta della lira del 1992 e la moneta unica europea, hanno costretto a ridurre il debito pubblico: sceso di venti punti, si è mantenuto poco sopra il 100 per cento del pil fino alla lunga recessione, dal 2007 in poi. Ora che la crisi è finita, la tentazione è di cercare ogni mezzo e mezzuccio per gettare i debiti sotto il tappeto. In fondo, si dice, l’Italia è fatta così, senza eventi eccezionali in grado di scuoterla, prevale l’aggiustamento conservatore. Ma anche questo ha un prezzo che ci riporta alla questione dalla quale siamo partiti: quando arriva il conto, chi paga?

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