Perché abbassare l'età pensionabile non è nell'interesse del paese
Tenendo conto della realtà del sistema economico italiano, quello delle pensioni deve essere il punto d’arrivo e non il punto di inizio di qualsiasi programma da presentare agli elettori
Si pensa davvero che abbassare l’eta di pensionamento sia negli interessi degli italiani e delle giovani generazioni? E che, come qualcuno ha affermato nei giorni scorsi, si possa fare questa “controriforma” tassando le cosiddette “pensioni d’oro”? Alcune semplici considerazioni mettono fortemente in dubbio il buon senso di una simile impostazione.
La prima riguarda le cifre e le compatibilità di bilancio: se per “pensioni d’oro” si intendono quelle superiori a cinquemila euro lordi, per ottenere un risparmio sufficiente a finanziare la riduzione dell’età pensionabile, e più specificamente la reintroduzione delle pensioni di anzianità, la cui abolizione è stata per anni invocata come segno della modernità e della efficienza del Paese, servono, nei prossimi 5-6 anni, alcune decine di miliardi. Una simile cifra richiederebbe la cancellazione completa delle “pensioni d’oro” e non un loro semplice ricalcolo secondo il meno generoso metodo contributivo. Un’operazione chiaramente impraticabile. Al di là delle considerazioni contabili – peraltro molto importanti, perché attengono a questioni di equità tra generazioni – vi sono poi considerazioni relative all’importo delle pensioni ottenibili a età relativamente giovani. Perché i casi sono due: o si dà anche a queste pensioni un “regalo” oppure il loro importo, a tali età, non può che essere modesto. Il calcolo contributivo della pensione, infatti, è un metodo in base al quale ciascuno finanzia con il lavoro – e quindi con il suo risparmio (contributi sociali) – la propria pensione. Per aumentare la pensione è necessario avere un reddito da lavoro più alto oppure lavorare più a lungo. L’aumento del reddito da lavoro dipende, in ultima analisi, dalla produttività, che a sua volta richiede investimenti in capitale fisico e capitale umano. Senza investimenti aggiuntivi e senza aumento della produttività, semplicemente non c’è alcuna “torta” aggiuntiva da distribuire.
L’aumento delle pensioni può allora derivare solo dal lavorare più a lungo – che è anche la risposta razionale all’invecchiamento e alla riduzione del numero dei giovani sulla popolazione complessiva – naturalmente fatte salve le categorie dei lavori usuranti e lo stato di salute delle persone. Le proposte di cui si discute in questi giorni guardano al passato, esprimendo la nostalgia per un periodo in cui si erano illusi gli italiani che per avere buone pensioni bastassero generose promesse politiche, senza alcuna riflessione sul fatto che la generosità politica comportava in realtà un insostenibile aumento del debito a danno delle generazioni giovani e future. Riproporre oggi gli errori del passato è irresponsabile. Occorre quindi lasciare tutto com’è? Assolutamente no. Un intervento sulle pensioni retributive ingiustificatamente alte è fattibile e anche opportuno. L’obbiettivo, tuttavia, non può essere quello di ripercorrere decenni di politica miope che ha portato all’insostenibilità del sistema ma piuttosto quello di richiamare a doveri di solidarietà coloro che hanno avuto regali ingiustificati dal punto di vista dell’equità. Non ci si deve però dimenticare che anche molte pensioni basse oggi in pagamento sono superiori a quanto versato dai coloro che le ricevono. Ciò vale per commercianti, artigiani, coltivatori diretti ma anche per molte pensioni di anzianità liquidate a età troppo basse, a cominciare dalle irresponsabili baby pensioni.
Tenendo conto della realtà del sistema economico italiano, quello delle pensioni deve essere il punto d’arrivo e non il punto di inizio di qualsiasi programma da presentare agli elettori. E’ necessario che si parli prima di come riuscire a dare un lavoro al maggior numero possibile di persone e non di ottenere solo trasferimenti pubblici, a cominciare dai giovani, i quali sanno bene che l’unica via per avere in futuro una pensione adeguata è avere una occupazione e un reddito da lavoro a loro volta adeguati. In un simile contesto, aggiustamenti anche alla riforma del 2011, come la continuazione del contributo di solidarietà sulle pensioni elevate, vanno nella direzione della conciliazione del paese, mentre sbandierare la cancellazione della “legge Fornero” come rimedio a tutti i mali vuol dire perpetuare un illusione e rinunciare una volta di più a cogliere l’importante occasione di una trasformazione strutturale del Paese, presupposto per una politica di sviluppo.