Perché è ora che l'Unione europea liberalizzi il settore trasporti
La sentenza della Corte di giustizia europea che ha stabilito come Uber sia una società che si occupa di trasporto pubblico dovrebbe spingere l'Ue a un cambio di rotta sui taxi
La sentenza della Corte di giustizia europea che qualche giorno fa ha stabilito come Uber debba essere annoverata fra le società commerciali che si occupano di trasporto pubblico potrebbe rappresentare l’occasione per liberalizzare a livello comunitario l’intero settore oggi dominato dai taxi e dalla disciplina giuridica che prevede il contingentamento delle licenze.
I Giudici del Lussemburgo, infatti, hanno ritenuto che Uber non possa essere classificata all’interno delle imprese che forniscono esclusivamente servizi di intermediazione fra domanda e offerta tramite applicazioni internet. La piattaforma on line della società americana, in sostanza, sarebbe stata pensata per fornire un servizio di trasporto, sebbene innovativo, e come tale l’attività d’impresa non può essere soggetta alla disciplina che prevede la liberalizzazione e la libera circolazione dei servizi a livello comunitario, ma deve sottostare alla regolamentazione prevista dai Trattati europei per il settore specifico dei trasporti. Ha però precisato inoltre la Corte di giustizia, che le istituzioni europee non hanno ancora provveduto a individuare una cornice giuridica uniforme all’interno della quale consentire il libero esercizio del trasporto tramite taxi, con la conseguenza che le aziende che volessero operare in tale settore sono costrette a osservare le singole legislazioni nazionali, la stragrande maggioranza delle quali prevede un limite massimo di autorizzazioni amministrative cui subordinare lo svolgimento della richiamata attività d’impresa.
Le conclusioni del Tribunale dovrebbero rappresentare, come detto, l’occasione per porre il Parlamento europeo e il Consiglio dell’Unione davanti alla ineludibile responsabilità di provvedere con urgenza alla liberalizzazione di un settore che la tecnologia ha dimostrato essere in grado di sviluppare un potenziale straordinario a beneficio di lavoratori e consumatori. E’ giusto rammentare, infatti, che quella dei trasporti è una materia di competenza concorrente fra stati nazionali e Unione europea, e che essa coinvolge la tutela dei consumatori, la liberalizzazione di un importante attività d’impresa e la salvaguardia di una rilevante innovazione tecnologica.
D’altro canto l’inerzia delle Istituzioni europee appare sino a questo momento giustificata esclusivamente in ragione della tutela di una rendita di posizione di coloro che già operano nel settore, allo stesso modo della deroga che i Trattati prescrivono, in materia di liberalizzazione e libera circolazione dei servizi, con riguardo all’attività di trasporto urbano. Non si ravvisano, difatti, esigenze di tutela di beni di rilievo comunitario che possano rappresentare un ostacolo alla piena liberalizzazione del trasporto tramite taxi, così come non si delineano particolari necessità di tutela di beni di rilievo costituzionale a livello di legislazione nazionale dei singoli Stati. Eppure l’art.1 del decreto legge italiano n.1/2012, ad esempio, stabilisce, al comma quinto, che le liberalizzazioni non si applicano al trasporto pubblico non di linea di persone e cose e cioè non si applicano ai taxi.
Viene, in definitiva, da pensare come non siano tanto le caratteristiche strutturali del servizio di trasporto urbano ad esigere la restrizione al libero esercizio di questa attività d’impresa, quanto l’ingiustificabile potere di ricatto di una categoria di lavoratori che riesce, persino a livello europeo, ad imporre la salvaguardia di un’inaccettabile rendita di posizione.
L’Unione europea, dopo la sentenza della Corte di Giustizia, ha adesso l’occasione per smentire questa presunzione.