Un'immagine delle proteste del movimento Occupy Wall Street (foto LaPresse)

Senza finanza non c'è progresso, ma in molti l'hanno dimenticato

Alberto Brambilla

Un paper della Bce fa tornare la memoria ai falliti di Occupy Wall Street

Roma. Quasi un anno fa, nel gennaio 2017, Micah White, uno dei fondatori del movimento contro il capitalismo finanziario “Occupy Wall Street” dichiarò ufficialmente conclusa la protesta e ne attestò il sostanziale fallimento perché l’unico risultato che ha portato è stato quello di installare alla Casa Bianca Donald Trump. Allo stesso modo nel Regno Unito, nei marosi della Brexit, Jeremy Corbyn ha raccolto il sentimento dei ragazzi di Zuccotti Park denunciando in piazza il mega-reddito personale dei banchieri; un efficace quanto consunto artificio propagandistico.

 

All’indomani della crisi finanziaria il risultato è una generale sfiducia. Gli amministratori delegati, ovvero i capi azienda, non sono più considerati credibili in 23 paesi su 28 monitorati dal Edelman Trust Barometer e solo il 37 per cento degli intervistati ritiene affidabile il leader di una grande società: “La maggioranza delle persone pensa che il sistema non stia lavorando per loro”. Certo, c’è sfiducia anche nei media, nei governi e nelle Ong. Ma durante i tempi di boom i top manager erano acclamati come eroi. Sembra che il comune denominatore dell’emergere di un sentimento anti finanza e anti banche non sia solamente la rabbia generalizzata, cavalcata da politici di schieramenti opposti, ma piuttosto una amnesia collettiva su quello che le istituzioni finanziarie, e i relativi strumenti sviluppati, hanno fatto e possono fare per migliorare le condizioni economiche personali e collettive.

 

Il recente working paper della Banca centrale europea “Evidence on finance and economic growth” (prove sulla finanza e la crescita economica) dell’economista Alexander Popov cerca di fare tornare la memoria su quello che ha significato negli ultimi secoli lo sviluppo del settore finanziario e su come sta cambiando il rapporto di forza tra banche e finanza di mercato. Nonostante il fatto che la letteratura empirica sulla finanza e la crescita sia ormai vecchia di un quarto di secolo, le opinioni divergono ancora sul fatto che lo sviluppo finanziario stimoli quello economico in senso causale. Per ricordare l’importanza del capitalismo finanziario è sufficiente dire che senza le compagnie di assicurazione e di riassicurazione non solo non sarebbero stati possibili i commerci di grano babilonesi, tremila anni avanti Cristo, ma nemmeno, oggi, il lancio di satelliti per le telecomunicazioni.

 

Assicurarsi da un rischio sempre maggiore dà la possibilità di assumersi rischi sempre più grandi, per questo la riassicurazione è il balsamo del capitalismo globalizzato. La crisi finanziaria del 2008 ha però rafforzato l’idea che la finanza possa degenerare nella ricerca di rendite e possa anche piantare i semi delle future crisi finanziarie, con implicazioni negative per la crescita a lungo termine e per il benessere sociale. Di conseguenza, sulla scia della crisi, la finanza è stata incolpata della Grande recessione, scrive Popov, il quale colleziona prove contrarie alla vulgata richiamandole dalla letteratura. Ad esempio con un’analisi su 19 mila imprese in 47 paesi è stato dimostrato che le aziende con un migliore accesso a finanziamenti esterni riescono a migliorare le tecnologie in uso con maggiore facilità delle altre. Al contrario, la carenza di accesso alla finanza, e al credito bancario, in economie in fase di sviluppo o di transizione è associata a minori investimenti in formazione dei lavoratori.

 

A chi teorizza, come il movimento Occupy, che la finanza crea diseguaglianze, recenti studi dicono che l’impatto di lungo termine sull’aumento del reddito della parte più povera della popolazione deriva per il 40 per cento dalla riduzione delle disparità sociali e per il 60 per cento dall’impatto dello sviluppo finanziario sulla crescita economica aggregata. Pur sostenendo che banche e finanza di mercato sono entrambe importanti per lo sviluppo, la ricerca della Bce avanza l’ipotesi che di recente siano gli strumenti finanziari (equity, debito e altro) ad avere guadagnato rilevanza rispetto al credito bancario nei paesi più avanzati, grazie alla migliore capacità di promuovere l’innovazione tecnologica. Di certo un progresso, non una condanna.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.