LaPresse/Fabrizio Corradetti

Siamo soltanto all'ouverture del "suicidio del 4 dicembre". Parla Vitale

Alberto Brambilla

Perché il primo grande "no" non lo scorderemo mai

Roma. “La data del 4 dicembre 2016 verrà ricordata come un giorno nefasto dagli italiani che aspirano o aspiravano a vivere in un paese civile e moderno e quindi per definizione governabile”. A dirlo è Guido Roberto Vitale, presidente di Vitale & Co., classe 1937, banchiere d’affari che ha visto dalle prime file i frequenti rovesci istituzionali nazionali. Vitale è d’accordo con l’analisi del Foglio di ieri per cui la vittoria del No al referendum costituzionale promosso da Matteo Renzi è stato un “suicidio”. “Si sono incancreniti i guai di un sistema politico lento nelle decisioni e arretrato rispetto al resto d’Europa – dice – Ha vinto l’Italia degli statali, dei parassiti, dei portatori di rendite, di quella economia nominalmente di mercato ma che in realtà è statalista e populista ed è recalcitrante verso l’innovazione. Se avesse vinto il Sì avremmo avuto un paese più stabile, magari l’Agenzia europea del farmaco a Milano, non avremmo avuto nessuna lettera puntuta dalla Commissione europea per la revisione della nostra Legge di bilancio. Un governo stabile e ‘decisionista’ è essenziale”. Che il mancato superamento del bicameralismo perfetto, o il rinvio sine die della riforma del Titolo V con l’accentramento di alcune competenze da enti locali a stato centrale (per non parlare di riduzione del numero dei parlamentari e abolizione del Cnel), abbiano confermato la debolezza delle istituzioni politiche non lo dice solo Vitale.

  

A circa un mese dal voto e dalle dimissioni di Renzi, l’agenzia di rating canadese Dbrs, unica a tenere l’Italia in zona “A”, ha declassato il merito di credito del paese (“BBB”, high) data l’incertezza sull’abilità della politica di fare riforme strutturali che pure durante il governo Renzi erano andate più spedite che nel ventennio precedente. “Per ragioni storiche la nostra è una democrazia incompiuta nel significato occidentale del termine, un paese dove non c’è separazione tra maggioranza e opposizione ma una democrazia consociativa rappresentata da una arcobaleno di portatori di interessi, e di interdizioni, che ci impediscono di essere un paese moderno. Il nostro governo non può prendere una decisione e renderla immediatamente esecutiva se non in condizioni emergenziali, ma è molto probabile che ci siano situazioni in futuro in cui la velocità di decisione e la chiarezza della politica estera sarà determinante per una serie di ragioni che sfociano nel progresso sociale, in definitiva nell’aumento della popolazione attiva e del tenore di vita generale”. Ma non è andata così, quindi quali prospettive ipotizza? “Siamo in un limbo. In una situazione per cui abbiamo fatto un passo indietro. Arriveremo impreparati alla prossima recessione, saremo impreparati a tutto, non saremo in grado nemmeno di partecipare attivamente alla ricostruzione dell’Europa che inevitabilmente si ridurrà a 19 stati, cioè all’Eurozona, e andremo a rimorchio”. Al quel No ne sono seguiti altri, esempio l’opposizione della Regione Puglia a investimenti esteri in Ilva. La tattica del conflitto è un automatismo? “La situazione è psichedelica. Siamo al paradosso di avere i sindacati che si alleano al governo centrale contro i poteri locali: vuol dire c’è bisogno che qualcuno ridia le carte e si rifacciano le regole. Ha ragione il ministro dello Sviluppo Carlo Calenda quando invoca una costituente post elezioni per cambiare la seconda parte della Carta”. Vuol tornare sulla scena del “suicidio”? “Non c’è alternativa, si può solo rimettere ordine. E poi il No non paga più: le casse sono vuote, non c’è più nessuna pecora da tosare. Non a caso il movimento del No al referendum partì da una cinquantina tra professori ultra settantenni ed ex giudici costituzionali che avevano da perdere posizioni di rendita con la vittoria del Sì. Bisognerebbe anche fare una ‘costituente’ per gli opinion maker per spiegare come ci si comporta nei paesi civili: i grandi media, i grandi giornali, non considerano l’interesse generale preminente sugli interessi particolari degli italiani che hanno portato all’attuale stato confusionale”.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.