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La Fed pungola Trump ma il "tax cut" fa proseliti in Europa

Giorgia Pacione di Bello

Dopo la riforma fiscale degli Stati Uniti anche altri stati si stanno attrezzando per abbassare la propria corporate tax e resistere alla competizione. Una ricognizione 

Milano. La portata della riforma fiscale di Donald Trump è stata depotenziata dalla Federal Reserve rispetto alle stime dei repubblicani. Per la Banca centrale americana, guidata fino a febbraio da Janet Yellen, darà un contributo del 2,2-2,6 per cento alla crescita del pil reale quest’anno, mentre Trump e i suoi repubblicani dicevano del 4. Tuttavia fa proseliti. Altri stati si stanno attrezzando per abbassare la propria corporate tax (imposta sulle società) in modo da non risultare meno attraenti sul terreno della competizione internazionale. Australia, Francia, Belgio, Germania, Ungheria, Regno unito e Giappone hanno già annunciato, tramite i rispettivi ministri delle Finanze, di star lavorando a riduzioni sulle aliquota fiscale aziendali.

      

Graham Bradley, ex presidente dell’European Australian business council, ha detto che è in atto un “movimento globale per ridurre le aliquote fiscali”. I governi stanno spingendo per queste riforme per “stimolare gli investimenti esteri” e molti paesi sono in ritardo. Il governo australiano ha deciso di voler ridurre la corporate tax di 5 punti percentuali in un decennio. Ora le società pagano un’aliquota pari al 30 per cento, con la riforma fiscale scenderebbe al 25. Il governo ha inoltre accelerato i tempi dopo i recenti sviluppi legati al piano fiscale di Trump. L’ambasciatore australiano negli Stati Uniti, Joe Hackey, ha riferito al dipartimento delle Finanze, come il taglio della corporate tax americana (dal 35 al 20 per cento) “sarà come una calamita per tutti i capitali detenuti all’estero e inizierà una massiccia fuga verso gli Stati Uniti”. Affermazione non così fuori luogo dato che i profitti che le multinazionali americane detengono all’estero sono pari a circa 3 mila miliardi di dollari. Nella riforma fiscale di Trump, approvata in via definiva il 20 dicembre, è stata inserita la “rempatriation tax” che consente alle multinazionali che vogliono rimpatriare i loro capitali di essere sottoposte ad un’aliquota pari al 14 per cento (su tutti i titoli liquidi) e del 7 sugli asset non liquidi.

   

Attenta alla svolta fiscale americana è anche la Germania, che teme danni alle sue esportazioni. Christoph Spengel, esperto di tassazione societaria del centro europeo di ricerca di Mannheilm ha detto che “la riforma porterà la competizione fiscale su un’altra dimensione; gli stati europei saranno costretti a competere fra di loro”. Le preoccupazioni tedesche sono giustificate dal fatto che la riforma mette in condizioni di svantaggio competitivo tutte le società non americane. Un esempio su tutti è rappresentato dal vantaggio sulle esportazioni: un’azienda americana che esporta si vedrà detratti in toto tutti i costi relativi alle esportazioni e non saranno sottoposti a nessun genere di tasse, mentre le società europee che commerciano con gli Stati Uniti si ritroveranno a entrare in un mercato più ostico di prima dove vige la legge “buy american”. Peter Altmaier, ministro delle Finanze tedesco ad interim, ha detto che “il problema con la proposta fiscale americana è che ci sono società straniere con filiali negli Stati Uniti”. La camera dell’industria e del commercio sta esercitando forti pressioni sul Berlino affinché “si faccia fronte alla concorrenza e si alleggerisca il cuneo fiscale sulle società”, pari al 28,22 per cento.

   

A far compagnia alla Germania ci sono anche la Francia e il Belgio, che hanno detto di voler abbassare la corporate tax al 25 per cento. La Francia parte da una situazione di svantaggio rispetto al Belgio: le società sono costrette a pagare una corporate tax pari al 38,35 per cento, mentre in Belgio è pari al 28,34. L’obiettivo della riduzione fiscale è quello di voler essere più attrattivi per gli investimenti esteri e di scoraggiare la fuga dei capitali verso gli Stati Uniti. Si aggiunge al trio europeo anche il Regno Unito che ha deciso di inserire nel progetto di bilancio, presentato il mese scorso al parlamento, una riduzione della corporate tax dall’attuale 19 al 17 per cento a partire dal 2020. La decisione inglese, ha però una duplice visione. Da una parte può essere letta come una contro misura alla politica fiscale americana, dall’altra parte in chiava anti-europea. Nel caso in cui dovesse, infatti, non far più parte del mercato unico, potrebbero diventare reali gli annunci più volti fatti da uomini del governo inglese: “diventeremo un paradiso fiscale”.

   

Ultimo in ordine cronologico, ma non meno importante è la decisione del governo giapponese di voler “ridurre la pressione fiscale in modo da rendere le aziende più competitive a livello globale”. Il governo nipponico sta infatti considerando di “premiare” le imprese che aumentano i salari, investono nella tecnologia e nella crescita, offrendo agevolazioni fiscali che hanno come effetto, il taglio della corporate tax al 20 per cento.

   

In Italia alcuni partiti ipotizzano un taglio delle tasse, ma la quasi totalità invoca un aumento della spesa contemporaneamente. In campagna elettorale non se ne discute ancora con sufficiente precisione come altrove.

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