Quanta energia sprecata nella guerra alla plastica. Basta indirizzarla meglio
Serve una correzione nella nuova guerra avviata da Theresa May e Unione europea e riguarda la catena distributiva alimentare
Mossa guerra alla plastica bisogna cominciare a pensare alla pace. Perfetto l’annuncio, con cui perfino Theresa May ha avuto i suoi cinque minuti da coraggiosa lottatrice per il bene, ottimi i propositi (soprattutto l’attenzione ai mari e loro abitanti). Ma poi in guerra bisogna avere degli obiettivi, e la distruzione totale del nemico non è tra quelli sensati né strategicamente fondati e neppure moralmente accettabili. Anche perché sarebbe una guerra di aggressione, contro un non-nemico inerme, tranquillo e dotato di un’ampia famiglia. Parlare di plastica, così senza specificare, e metterla dalla parte del male, oltre che ingeneroso è anche terribilmente generico. Di plastiche ne esistono centinaia e ancora ne vengono create di nuove, modificate, rielaborate. Divise in due grandi famiglie, quelle che si modificano con il calore e quelle che resistono, invece, alle temperature estreme (in entrambe le direzioni).
L’umanità ha cominciato a tentare di produrle verso la metà dell’Ottocento, ma la prima stabilizzata e davvero utilizzabile è del 1907. Sembrava un sogno quello di poter disporre di un materiale lavorabile senza grandi rischi, che non si scheggia, che cambia forma facilmente, adatto per contenere fluidi, all’occorrenza perfettamente impermeabile. La gomma, che è un po’ la sua sorella maggiore, aveva mostrato la strada. Partendo da una resina, raccolta da un albero, dotata di parte delle caratteristiche necessarie di lavorabilità, malleabilità e resistenza. E da quella idea non ci si è più allontanati, evolvendo però nella tecnica produttiva. Passando quindi dalla gomma ricavata dagli alberi a quella sintetica. Il settore che in Italia ha il maggior numero di aziende con piena continuità operativa da più di 200 anni, assieme a quello del vino, è quello della gomma. Proprio perché chi aveva cominciato trattando la resina, poi, senza interruzioni, è passato al prodotto sintetico. Ciò che contava era avere a disposizione un materiale con quelle eccezionali caratteristiche. E lo stesso sta succedendo con ciò che chiamiamo plastica. Che ha accompagnato i decenni di crescita tumultuosa dell’industria, di aumento della ricchezza, di uscita dall’incubo della fame. Sì, perché la plastica, tra i suoi mille usi, tocca da vicino la salute umana in due momenti cruciali: quando si va a tavola e quando ci si cura. Gli imballaggi di plastica permettono di far arrivare i prodotti dai luoghi di coltivazione ai mercati, passando per trasporti, smistamento, vendita all’ingrosso, senza essere gravemente contaminati. Gran parte dei farmaci semplicemente non sarebbe disponibile senza i materiali plastici a proteggerli dall’ambiente e a renderli poi utilizzabili.
Adesso, a questi materiali di cui approfittiamo per il nostro benessere, vogliamo muovere guerra. E usiamo come prove la loro permanenza, tristi e abbandonati, sulle rive e nelle acque marine e interne. Terribile, certo, ma riflettiamo sulle strategie. Finché si tratta di tassare un po’ i sacchetti va bene. Ma, ad esempio, nella catena distributiva alimentare non si può fare a meno delle plastiche. Allora le energie usate per la guerra distruttiva potrebbero forse essere usate meglio (e anche i ricavi dalle imposte sull’uso dei prodotti in plastica). Invece di esporre a casaccio l’idea di circolarità economica, ecco il settore giusto in cui applicarla sensatamente, con un possibile mercato e necessari accordi e controlli (anche internazionali) per tutte le fasi di vita del prodotto, comprese quelle della raccolta e smaltimento o riciclo (e la dispersione nell’ambiente si ridurrebbe enormemente). Servirebbe una campagna mondiale. Il vantaggio è che la stanno già facendo, basta correggerla appena appena.