Riformisti in "tuta blu"
C'è vita sotto la coltre sindacale. Chi sono gli innovatori del lavoro
Non solo Bentivogli (Fim-Cisl). Alla ricerca di sindacalisti pragmatici che possono scuotere le organizzazioni nazionali. La questione generazionale
Roma. E’ dura la vita degli innovatori nel sindacato. Non che non ce ne siano, anzi; ma i meccanismi di conformismo interno sono molto forti, forse più che nei partiti. Prendere posizioni controcorrente è difficile. C’è un doppio problema, generazionale e culturale, dove per culturale si intende la cultura della battaglia interna: quella, per dire, che portò ai vertici della Cisl un Pierre Carniti. O che in Cgil aveva visto, a fine anni ’90, un gruppo di “colonnelli’’ quarantenni ordire una rivolta contro l’allora segretario generale, Antonio Pizzinato, che si concluse con l’arrivo alla guida della confederazione di Bruno Trentin; innovatore per eccellenza.
Oggi sono impossibili da immaginare guerre di questo genere. Desta già scalpore, e forse anche qualche fastidio, l’attivismo di Marco Bentivogli, segretario generale dei metalmeccanici Fim-Cisl, pochissimo omologato. Nonostante abbia gestito le vertenze e i rinnovi contrattuali più complessi e il suo sostegno al segretario confederale Anna Maria Furlan è spesso considerato un “marziano” anche da una parte della sua stessa confederazione. Di recente Bentivogli ha firmato sul Sole 24 Ore un manifesto con il ministro per lo Sviluppo economico, Carlo Calenda, invocando l’urgenza di una classe dirigente competente ed efficace.
Le tre confederazioni sono una sorta di coltre, dove l’età media rispecchia l’invecchiamento del paese. Anche se i giovani non sono un esercito, e spesso quelli cooptati sono i più rassicuranti per i gruppi dirigenti, si scoprono posizioni innovative e riformiste a un tempo.
In Cgil c’è Alessandro Genovesi, segretario generale degli Edili, tra i primi a porre il problema del “finto” ricambio della confederazione: ogni otto anni i dirigenti scadono dall’incarico, è vero, ma si scambiano quasi automaticamente la poltrona, e le giovani leve non riescono mai ad arrivare a incarichi di peso, denunciava il “Pierino la peste” della Cgil già nel 2007. Oggi, poco più che quarantenne, Genovesi ha nel suo palmares trofei importanti come la gestione della vertenza Telecom del 2007 (28 mila esuberi) e quella sul petrolio in Basilicata, la ristrutturazione della Natuzzi e di Italcementi. Accordista per natura, vanta con orgoglio i 160 mila accordi firmati dai sindacati negli ultimi anni: “Tutte le grandi crisi le abbiamo sempre gestite con responsabilità e pragmatismo, sapendo che se da un lato c’è una grande azienda da salvare e dall’altro migliaia di dipendenti e famiglie, una mediazione tocca per forza trovarla”. Stessa tensione naturale verso la mediazione si riscontra in Michele Azzola, capo della Cgil di Roma e del Lazio. Da mesi sta cercando di venire a capo del “disastro Capitale”, barcamenandosi tra il Mise di Carlo Calenda, il Campidoglio di Virginia Raggi e la Regione Lazio di Nicola Zingaretti; ma senza mai senza mollare, nel contempo, le migliaia di lavoratori inferociti, figli delle crisi industriali romane (Sky, Almaviva, Alitalia, Aci Informatica, Eutelia, ecc.) spiegando loro, con pazienza olimpica, che “la collaborazione tra tutte le istituzioni è la sola strada per uscire dal declino”.
Un altro giovane, Massimo Bonini, è a capo della Camera del Lavoro di Milano. Classe 1982, ha iniziato a fare il sindacalista a vent’anni, come delegato di una azienda di call center. Poi è passato al commercio, alla grande distribuzione, nel 2014 gli tocca la partita Expo. Quando Susanna Camusso lo propone a capo della Camera del lavoro lo fa con queste parole: “E’ la raffigurazione del rinnovamento”. Lui precisa: “Rinnovamento non vuol dire rottamazione, anche perché non credo nel giovanilismo sfrenato”. Il rinnovamento, per Bonini, passa anche per l’accettazione della flessibilità, “una modalità utile per la gestione dei picchi di produzione e per particolari esigenze produttive”, del tutto diversa dal precariato. Sembra un secolo fa quando l’allora leader Cgil Sergio Cofferati definiva la flessibilità “una parola malata’’.
Chi sono e che cosa vogliono gli innovatori del sindacato
Nella Uil il rinnovamento potrebbe identificarsi con Lucia Grossi, quarantenne, a capo della UilTemp, la categoria che rappresenta i lavoratori temporanei e gli atipici: cioè i più giovani, quelli che col sindacato hanno meno feeling. Osserva Grossi: “Considerando i lavoratori che rappresentiamo, dobbiamo essere la categoria che più di altre affronta la diffidenza e lo scoraggiamento. Dobbiamo reinventare la nostra identità. Non è solo una battaglia di rappresentanza, ma un’idea di futuro. Però poi che cosa dici a un lavoratore che ha messo insieme 190 Cud in un anno?”.
Ci sono però anche innovatori non giovanissimi. Ancora in Uil, un dirigente storico come Paolo Pirani – che molti avrebbero visto bene a capo della confederazione – guida la categoria dell’energia, chimici e tessili e non esita a prendere posizioni controcorrente. Sul fisco, per esempio, vedrebbe con favore uno scambio tra la riduzione delle tasse sul lavoro con l’aumento dell’Iva, trovando assurdo inchiodarsi a un totem che immobilizza ogni anno miliardi. Lasciare andare l’Iva e concentrarsi sul taglio dell’Irpef, secondo Pirani, sarebbe la cosa giusta da fare per poter avviare una nuova politica salariale attiva, e non solo difensiva. Ma si tratta di una posizione del tutto contraria al mainstream, appunto.