I disoccupati dell'apocalisse
Wall Street vola, crescono America ed Eurozona. Dove sono finiti i guru dello sfascio e del pessimismo globale?
I profeti dell’apocalisse accolti a Davos la prossima settimana, sono chiamati a riscrivere la parte finora recitata nella commedia dei potenti. Lo scenario è sempre lo stesso, ma il copione è in gran parte cambiato. Per la prima volta in dieci anni si discute non di crisi, ma di sviluppo; non di crolli, colassi e sfracelli, ma di economie che crescono tutte insieme, redditi che salgono, salari che aumentano, profitti che si gonfiano. Vuoi vedere che invece di una stagnazione secolare bisognerà prendere in esame una espansione secolare? Ne saranno capaci i guru dello sfascio, gli aedi del pessimismo globale? Certo, dovranno riaprire i libri sulla teoria dello sviluppo lasciati in cantina, spolverare gli scaffali più alti delle loro biblioteche zeppe di “aspettative decrescenti” e crac finanziari, capire come i rozzi dati del reale possono sposarsi con le levigate categorie dell’ideale; il loro ideale naturalmente.
Il Dow Jones ha sfondato quota 26 mila, un mese fa era a 18 mila, e non è turbofinanza ma economia reale. Bene anche Piazza Affari
Le cifre parlano il linguaggio dell’ottimismo: l’economia degli Stati Uniti viaggia a un ritmo del 3,6 per cento annuo, in perfetta sintonia con l’Eurozona che sarebbe dovuta sparire dalla mappa secondo il circo negazionista, invece cresce del 3,5 per cento; un po’ meno bene va il Giappone, ma è pur sempre un più 2,3 per cento; fiacca la Gran Bretagna (+1,6 per cento), ma è tutta colpa sua (la Brexit si fa sentire eccome); mentre la Cina ha recuperato la fatidica soglia del 7 per cento che consente a Xi Jinping di regnare sul comunismo con la pelle del capitale; anche se resta il più che legittimo dubbio sull’accuratezza delle statistiche ufficiali, l’Impero di mezzo se ne sta, solido, al centro del mondo, arbitro delle sorti asiatiche (come dimostra il nuovo dialogo tra le due Coree). Persino la Grecia che gli apocalittici davano per affondata nell’Egeo come la mitica Atlante, sta uscendo lentamente da otto anni di salvataggi. La Germania s’avvia a formare l’ennesima grande coalizione (una formula entrata nella vita quotidiana tanto che viene chiamata amichevolmente Gro Ko, per Grosse Koalition) e discute come impiegare in investimenti interni l’enorme sovrappiù accumulato in questi anni vendendo all’estero i prodotti della sua industria efficiente e solida come non mai. Quanto all’Italia, ha faticato a lungo, è arrivata in ritardo, ha agganciato l’ultimo vagone, ma adesso sembra proprio che abbia schiacciato come si deve l’acceleratore.
E le borse? I potenti in moon boot non possono non tenerne conto visto che sono in gran parte artefici delle loro ricchezze. A Wall Street l’indice Dow Jones ha sfondato quota 26 mila, un mese fa era a 18 mila. Una corsa folle, torna la turbofinanza, è pura speculazione? Sentiamo già il ron ron degli apocalittici. E allora diamo uno sguardo ai titoli che sono andati meglio in queste ultime due settimane: Boeing più 374 punti, UnitedHealth più 96, 3M più 65, Caterpillar più 62. Insomma economia reale, spazio, salute, costruzioni, strumenti di lavoro, scienza applicata alla vita. Una simile griglia si ritrova un po’ ovunque, anche a Milano in Piazza Affari dove spicca il comparto automobilistico; e sì che avevano cantato tutti il de profundis dopo l’abbandono della Fiat.
Per non fare la parte del dottor Pangloss, meglio mettere le mani avanti. Molte componenti della stagnazione di lungo periodo messe in evidenza da Larry Summers sono ancora all’opera, si pensi al declino della popolazione in occidente, mentre dietro la crescita attuale sono all’opera fattori puramente ciclici: c’è il recupero della capacità produttiva perduta durante la recessione e rimasta dormiente, c’è la politica monetaria che resta eccezionalmente espansiva, ci sono gli stimoli fiscali che in Cina hanno compensato il rallentamento del 2015-2016. L’ex ministro del Tesoro di Bill Clinton non ha cambiato idea e sottolinea che una inflazione così bassa nonostante una politica monetaria tanto espansiva è il sintomo di un male che mina nel profondo l’organismo economico. Ma i dati sulla crescita contraddicono le sue vecchie previsioni. Ormai è evidente che qualcos’altro è covato sotto la cenere in tutti questi anni e adesso spuntano le prime lingue di fuoco.
Il tasso di disoccupazione è sceso al 4,3 per cento negli Stati Uniti, in Germania a novembre era al 3,6, in Giappone resta al 2,7
Gli apocalittici non s’arrendono. Sì, c’è crescita, ma non c’è lavoro. Eppure il tasso di disoccupazione è sceso al 4,3 per cento negli Usa, in Germania a novembre era addirittura il 3,6 per cento, in Giappone resta al 2,7. Secondo i teorici del mercato del lavoro sono statistiche da pieno impiego. La jobless recovery, la ripresa senza lavoro, è uno spettro che non si è materializzato, al contrario ancora una volta l’hanno avuta vinta i classici, con la ripresa aumenta anche l’occupazione. E vabbè, ma gli stipendi? D’accordo, sono schiacciati in basso. La crisi ha colpito duramente i lavoratori. Tuttavia adesso torna a salire anche la giusta mercede per gli operai. In Francia, scrive Le Figaro, “la ripresa dopa i salari” ed è per la prima volta dal 2007. Il rialzo è evidente anche negli Stati Uniti. Sergio Marchionne che aumenta le buste paga alla Fiat Chrysler non lo fa per compiacere Donald Trump (almeno non solo), ma perché il boom dell’auto e la pressione della domanda lo rendono inevitabile.
Che ne dice Nouriel Roubini, l’economista che si vanta di aver previsto il grande crac del 2008? Lui insiste e lancia il nuovo allarme: stiamo andando verso una nuova crisi. Le borse hanno gonfiato un’altra bolla. Le banche centrali iniettano droga nel corpo esausto del tardo-capitalismo. Ci stiamo, quindi, avvicinando all’orlo del burrone. Sarà vero? Chissà. Ma la sua tecnica è sempre la stessa, annunciare in anticipo la prossima crisi, così che, quando arriverà (perché l’economia è ciclica e prima o poi la frenata ci sarà) potrà piantare la bandierina gridando: io l’avevo detto.
E Paul Krugman che prevedeva sfracelli con Trump alla Casa Bianca? La svolta economica non è merito del presidente pel di carota, lo sottolinea anche l’Economist, tuttavia nonostante i suoi proclami rodomonteschi, finora The Donald non ha messo i bastoni tra le ruote come aveva minacciato in campagna elettorale. Niente dazi e tariffe rovinose contro le merci straniere (cinesi soprattutto), una riforma fiscale che certo costa al bilancio federale milletrecento miliardi di dollari e non si sa bene come verrà coperta (quasi certamente aumentando il debito pubblico), ma che tuttavia ha solleticato gli spiriti animali, quelli dei ricchi e quelli della classe media (i poveri, come le salmerie degli eserciti, seguiranno o almeno così sperano). L’eccitazione in borsa è frutto anche di queste migliori aspettative. Prima o poi lo stesso Krugman dovrà ammetterlo.
Non aspettiamoci ripensamenti, invece, dai negazionisti italiani che continuano a regnare indiscussi nei talk -show televisivi. Sarà l’aria di campagna (elettorale), sarà una certa prosopopea che pervade le menti quanto più la fuffa ha la meglio sulla sostanza, ma il senso comune in Italia se ne sbatte del buon senso. Tra gli irriducibili, gettonatissimo dalle televisioni, spicca Claudio Borghi, responsabile economico della Lega. Un anno fa preannunciava: ecco il tonfo che ci aspetta. E a luglio esultava: le balle sulla ripresa vengono a galla. Invece… Ospite a Cernobbio nella piccola Davos domestica, sbuffava: da due anni a questa parte sono saltate sette banche, siamo stati invasi da 400 mila persone, Draghi ha stampato 1.400 miliardi di euro. E questa la chiamate ripresa? Alberto Bagnai, uno dei più pugnaci avversari dell’euro testa a testa con il succitato Borghi, dopo aver negato a lungo la possibilità della ripresa economica, a ottobre si è lanciato in uno spericolato gioco di avversativi: “Sì, stiamo ripartendo, ma a una velocità che è meno di metà di quella dell’ultima ripartenza, e da un livello inferiore di oltre il 20 per cento a quello pre-crisi – così calcolava nel blog Goofynomics – Quindi le cose non vanno proprio bene. Eh, no, direi proprio di no: direi che vanno peggio”. Da una sponda diversa, gli ha fatto eco Michele Boldrin: “Non c’è nessuna ripresa economica in Italia. Se si guarda al complesso dei dati il quadro è ancora molto grigio”. Insomma, il declino continua. Lui aveva provato a fermarlo con la fondazione di Fare, ma più che fare si è trattato di parlare. Boldrin non è come Borghi e Bagnai, li guarda da lontano, dal cuore del Midwest perché insegna alla università di St. Louis nel Missouri, ma alla fine arriva alle stesse conclusioni.
I negazionisti italiani continuano
a regnare indiscussi nei talk-show. Per loro “non c’è nessuna ripresa economica”, e manca il lavoro
Per tutti, anche per i giornaloni, il punto debole è la disoccupazione. Scrivono che il lavoro non c’è, i giovani lo cercano inutilmente e quando vi inciampano più o meno per caso, scoprono che è incerto. Cresce l’occupazione, ma quasi tutta precaria, titola il Corriere della Sera. Che cosa pensa la gente, se non che la maggior parte degli occupati è fatta di precari? Prendiamo le aride cifre: in Italia ci sono 23 milioni di occupati, 18 milioni dipendenti, 2,9 milioni a tempo determinato. Però, la propaganda vince su tutto. L’Istat nel suo ultimo rapporto sottolinea che l’ingresso nel mercato del lavoro di persone precedentemente inattive è significativo, più che in Francia, più che prima della lunga recessione. Marchionne ha spiazzato tutti dicendo che entro la fine dell’anno è possibile arrivare alla piena occupazione anche in Italia. I giornali hanno titolato sulla sua presa di distanza da Matteo Renzi e hanno preso per una sparata da super Sergio quella che invece è l’affermazione meno scontata.
Allora come stanno le cose? Per capirlo sarebbe meglio andare oltre l’apparenza e cercare i cambiamenti strutturali che riguardano il mercato del lavoro e l’insieme della società. Citiamo ancora l’Istat: “Un ulteriore elemento che caratterizza l’attuale livello di disoccupazione è lo spostamento a destra della curva di Beveridge (deve il suo nome all’economista inglese padre del moderno welfare state, ndr.), che combina i livelli del tasso di posti vacanti con quelli del tasso di disoccupazione. Per uno stesso livello del tasso dei posti vacanti, nei primi mesi del 2009 il tasso di disoccupazione corrispondente era pari a circa il 7 per cento, mentre nei primi mesi del 2017 è salito al 12, a testimonianza di cambiamenti strutturali nella relazione tra domanda e offerta di lavoro”. In altri termini, mentre ci si lamenta che manca il lavoro, le aziende vogliono nuovo personale e non lo trovano, perché la scuola ha mancato di formare i quadri adatti all’economia odierna. Dunque, è qui che bisogna guardare, non all’epifenomeno, ma dentro la struttura.
Si può azzardare una spiegazione di fondo per quel che sta accadendo? Si può e la chiave di lettura si chiama grande trasformazione. Prima ha attraversato le economie occidentali che più si erano globalizzate. Poi i paesi che sono entrati nel grande circuito, come la Cina, l’India, alcuni paesi dell’America latina. Ma soprattutto quell’enorme bacino che va dal Mar della Cina all’Oceania, con l’Australia che, tra parentesi, ha sentito meno di altri la grande crisi, a fare da ponte e da trampolino mercantile e finanziario tra oriente e occidente. L’Europa è giunta in ritardo, ma è stata attraversata dallo stesso processo, in modo diverso secondo le diverse fasi di sviluppo; nord-sud, est-ovest, le differenze storiche hanno funzionato da freno, talvolta hanno distorto e deviato il movimento, ma non lo hanno fermato.
Appuntamento a Davos. Ci sarà anche Trump, che s’è fatto eleggere dalla classe operaia per dare più forza al capitale
Tecnologia, lavoro, capitale: i tre fattori della produzione si sono modificati profondamente. Siamo passati dalla rivoluzione informatica a quella digitale che attraversa la fabbrica e plasma anche i servizi (la crisi delle banche, per esempio, ha anche questa dimensione industriale). L’applicazione della scienza alla produzione non poteva non sconvolgere la forza lavoro, creando nuove aristocrazie e nuove plebi sia nella manifattura sia nel terziario, perché la grande trasformazione attraversa tutto, in modo orizzontale. Non è vero che sparisce l’officina e trionfa l’ufficio, restano entrambi pur cambiando in modo radicale: l’operaio in camice bianco che controlla un robot è una figura produttiva come e ancor più del povero Charlot in “Tempi moderni”. Nel mondo del capitale, poi, stiamo assistendo alle conseguenze forse più radicali di un ciclo che risale agli anni Settanta. Dai petrodollari al big bank finanziario, dalla riconversione industriale in occidente al capitalismo di massa, dalla dittatura delle banche d’affari che guardano solo al breve termine al trionfo dei fondi d’investimento che guardano al medio periodo e puntano sulle energie rinnovabili, sull’innovazione tecnologica, sulle start-up (è proprio questo il fenomeno emerso con prepotenza come risposta alla crisi del 2008 che ha chiuso il vecchio ciclo speculativo). Ecco il capitale del XXI secolo, che non ha l’odore stantio della rendita, il profumo incipriato del rentier evocato da Thomas Piketty.
A Davos sentiremo tutto sulla quarta rivoluzione industriale da Klaus Schwab, lo svizzero fondatore del forum, che ne ha fatto un suo cavallo di battaglia. Poi, per dare un colpo anche alla botte, ci sarà un dotto dibattito sulla crisi finanziaria prossima ventura con immancabile punto interrogativo e un panel prestigioso di guru dell’economia da fine del mondo. Il protagonista assoluto, però, sarà Donald Trump fresco di check-up medico dal quale risulta sano di mente, un po’ meno di fisico (colesterolo alto, troppa ciccia e cibo spazzatura). Vuole emulare Bill Clinton, unico presidente americano a partecipare in carne e ossa, che nel 2000 conquistò la platea di potenti in maglione da sci. Arrivato alla Casa Bianca sfidando l’establishment e la globalizzazione, con il voto dei losers, dei perdenti, dei vinti degni di un Giovanni Verga da Terzo millennio, Trump liscerà il pelo all’élite globale come ha sempre fatto e ha continuato a fare con gli gnomi di Wall Street. Perché è così che ha stimolato una crescita negata come possibile durante la campagna elettorale ispirata da Steve Bannon e dai complottisti di Breitbart. Gli spiriti animali, invece, si sono rimessi in moto e lui ha preso tutti per i fondelli, s’è fatto eleggere dalla classe operaia per dare più forza al capitale. Apocalittici di tutto il mondo, arrendetevi.