Matteo Renzi (foto LaPresse)

Cosa non funziona nel programma economico del Pd

Veronica De Romanis

Lotta alle disuguaglianze, crescita economia e riduzione del debito. Il partito ripropone le stesse misure, o addirittura le rafforza, nonostante l’impatto sia stato ben inferiore alla attese

La campagna elettorale del Partito democratico sembra diversa dal passato soprattutto nella forma - non c’è più un uomo solo al comando bensì una squadra di “competenti” (di cui, però, vengono citati solo i ministri, mai le ministre sebbene abbiano guidato dicasteri di “peso”). Non nei contenuti, però. Il programma, infatti, somiglia molto a quello degli ultimi anni: in alcuni casi vengono riproposte le stesse misure di politica economica, o addirittura vengono rafforzate, nonostante l’impatto sia stato ben inferiore alla attese. Almeno in tre ambiti, prioritari per il nostro Paese.

 

Se si considera, in primo luogo la lotta alle disuguaglianze, l’Italia è l’economia in Europa con il maggior numero di poveri in termini assoluti, oltre 10 milioni. Tra questi, i più colpiti sono le famiglie con figli minori, le donne sole e i giovani. Eppure il governo ha deciso di riproporre il bonus cultura di 500 euro per tutti i diciottenni, ricchi inclusi, una misura che alla luce di questi numeri appare davvero incomprensibile. I ragazzi che provengono da famiglie meno abbienti, peraltro, sono i più svantaggiati nella ricerca di un’occupazione. Dai dati recentemente pubblicati da Eurostat si evince che oltre l’82 per cento dei giovani italiani che cerca lavoro, lo trova grazie alla rete di conoscenze familiari, una percentuale tre volte superiore a quella della Germania e due volte superiore a quella della Francia. Del resto, non c’è da stupirsi. In questi anni le risorse destinate alle politiche attive sono state davvero modeste (un decimo di quelle che ricevono i centri per l’impiego tedeschi) anche perché l’Anpal, l’Agenzia nazionale per le politiche attive, ha subito il contraccolpo della bocciatura della riforma costituzionale. Forse, a posteriori, l’aver legato il destino di uno strumento così fondamentale per favorire l’incontro tra la domanda di lavoro dei giovani - soprattutto quelli privi di parenti o amici con le conoscenze “giuste” – con l’offerta delle aziende ad un referendum non si è rivelata una strategia vincente. I risultati sono gli occhi di tutti: l’Italia registra il tasso di disoccupazione tra i 15-25enni più elevato dopo la Spagna e la Grecia. 

 

Guardando in secondo luogo alla crescita economica, diversi studi (in particolare quello molto dettagliato elaborato dal Centro Studi Economia Reale diretto dal professor Baldassari) dimostrano come l'attuale ripresa italiana sia principalmente ascrivibile a fattori esogeni, quali il traino del commercio mondiale, il basso prezzo del petrolio e l'intervento della Banca centrale europea che con la sua politica di tassi di interesse pressoché nulli riduce l'onere del debito pubblico. Pertanto, solo una piccola parte dell’attuale punto e mezzo di crescita del Pil - per inciso il tasso più basso tra i paesi dell’Eurozona - è frutto delle misure di policy implementate fino ad ora.

 

Eppure, nonostante questo modesto effetto, il governo intende estenderle in caso di vittoria dell’attuale partito di maggioranza relativa. A cominciare dagli 80 euro che verranno elargiti alle famiglie con figli fino al compimento del diciottesimo anno di età. Per ora, non è chiaro quale sia la fascia di reddito dei destinatari e dove verranno trovate le risorse per finanziarlo. Ma, soprattutto, non è chiaro l’obiettivo che si intende raggiungere. Se lo scopo è quello di aumentare i consumi, bisogna ricordare che il precedente bonus da 80 euro non ha ottenuto il successo sperato: studi della Banca d’Italia rilevano come a fronte di una spesa totale di oltre 10 miliardi di euro, l’incremento dei consumi sia stato poco più di 3 miliardi. Se, invece, come sembrerebbe, l’obiettivo è quello di incentivare la natalità, anche questa volta si rischia di ottenere un risultato modesto. Basti pensare al caso tedesco dove il governo per ogni figlio garantisce fino alla maggiore età un assegno (il cosiddetto Kindergeld) ben superiore a quello ipotizzato dal Partito democratico, eppure la Germania ha uno dei tassi di fecondità tra i più bassi d’Europa. L’ultimo rapporto Istat (“Natalità e fecondità della popolazione residente”) rileva come tra i molteplici motivi sottostanti il drastico e recente calo delle nascite in Italia ci sia anche l’incertezza sul futuro e – da questo punto di vista - non c’è nulla di più incerto di un “bonus”, ossia una somma di denaro che potrebbe venir meno in qualsiasi momento oppure compensata da un incremento della tassazione. Le donne italiane, più che degli 80 euro, avrebbero bisogno di trovare un lavoro che garantisca loro la possibilità di pianificare il proprio futuro. L’Italia è il paese con uno dei tassi di occupazione femminile più bassi sia in termini di livelli (48,1 per cento, oltre dodici punti al di sotto della media dell’area dell’euro), sia in termini di crescita nell’ultimo decennio (intorno al 3 per cento, la metà dell’area dell’euro e un quarto di quella tedesca).  Eppure più donne sul mercato del lavoro significherebbe più ricchezza per tutti. Anche in questo caso, replicare, persino estendere la politica dei bonus non appare una scelta convincente.

 

 

Infine per quel che riguarda l’obiettivo della riduzione del debito, il governo promette una calo graduale fino al 100 per cento del Pil in un decennio. Si tratterebbe di una vera e propria inversione di rotta rispetto alla politica fiscale espansiva attuata negli ultimi tre anni. I dettagli della nuova strategia non sono ancora stati resi noti ma qualcosa si può capire leggendo attentamente le pagine della Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza. Nel Documento il debito è previsto calare già a partire dall’anno in corso (130 per cento del Pil) per poi raggiungere nel 2020 il 123,9 per cento del Pil. Si tratta di una diminuzione di oltre 6 punti percentuali in un solo biennio, grazie a una crescita del deflatore del Pil, ipotizzata - a partire dallo scorso anno - quasi doppia rispetto alle stime fornite dai principali istituti internazionali. Oltre al ricorso a ipotesi assai ottimistiche, la prevista riduzione del debito presenta una serie di incongruenze (messe in luce dall’Osservatorio sui Conti pubblici diretto da Carlo Cottarelli) tra la dinamica del disavanzo e quella del debito. La suddetta Nota non fornisce spiegazioni al riguardo e ciò ne rende la lettura complicata e di difficile comprensione. Sarebbe importante fornire queste informazioni nel programma che il partito democratico si appresta a rendere pubblico. Altrimenti il rischio è quello di replicare il metodo usato fino a ora: annunciare svolte per poi ritrovarsi 3 anni dopo con un aumento del debito dal 129 per cento del Pil del 2013 al 132 per cento del 2016, nonostante la fase di espansione del ciclo.

 

Nelle conclusioni del suo discorso all’inaugurazione dell’anno accademico della Luiss, il premier Gentiloni ha fatto propria la frase di Guido Carli “la speranza è un rischio da correre”, quasi a voler sottolineare che non bisogna aver paura di sperare che in futuro la strategia di policy messa in campo fino ad ora possa dispiegare appieno i suoi effetti.

Si potrebbe replicare con le parole di un altro banchiere centrale europeo secondo cui “hope is not a policy strategy” (“la speranza non è una strategia di politica economica”). Per un paese come l'Italia, 27esimo su 27 in termini di crescita della ricchezza prodotta, la speranza è sicuramente utile, ma i fatti forse lo sono ancora di più.