Banche & giornali
L’editore parallelo. Ventriglia, Cuccia, Bazoli: quando c’è da salvare una testata, spesso arriva il banchiere. Che non lo fa solo per i soldi
Enrico Cuccia che da giovane scriveva per il Messaggero e aveva scelto un giornalista del Sole 24 Ore, Vincenzo Maranghi, come successore, diceva sempre ai suoi clienti eccellenti: “State lontani dai giornali, sono solo fonte di guai”. Nessuno però gli ha mai dato retta. Racconta Piero Ottone che Eugenio Cefis, allora gran capo dell’Eni dopo la morte di Enrico Mattei, gli spiegò così la sua passione per la stampa: “Vede, io sono un industriale e ho bisogno di favori dai politici, per restituirli il modo migliore è possedere un giornale”. Quanto a Giovanni Agnelli, il cofondatore della Fiat, soleva ripetere fin dagli anni Trenta: “Non importa quanto vende La Stampa, l’importante è che tutti i giorni, alle sette del mattino, arrivi sulla scrivania del capo del governo”. Leggende metropolitane? Forse, ma le ripetute battaglie di Via Solferino per la conquista del Corriere della Sera portano i segni di questo legame sulfureo al quale non si sono sottratte nemmeno le banche il cui cruccio fondamentale è sempre stato che la montagna di debiti potesse crollare travolgendo tutto e tutti. I debiti, la penuria di capitali propri, ecco il fardello che opprime la stampa italiana la quale non può certo contare sul mercato perché le vendite non sono mai bastate a far marciare le rotative. Di qui, la funzione salvifica dei banchieri, talvolta persino a titolo gratuito (o a buon rendere) talvolta per esercitare un ruolo di controllo o di editore parallelo, raramente per far quattrini.
Eugenio Scalfari, nella polemica intervista rilasciata venerdì scorso al giornale da lui stesso fondato, per rispondere alle accuse di Carlo De Benedetti, ha raccontato che la Repubblica venne tenuta in vita non dall’Ingegnere, ma da un banchiere, uno dei più potenti e importanti degli anni Settanta e ottanta del secolo scorso, quel Ferdinando Ventriglia, indicato da Guido Carli come suo successore al vertice della Banca d’Italia. “Ci eravamo indebitati e avevamo l’acqua alla gola – racconta Scalfari – Ci salvò il presidente del Banco di Napoli, Ventriglia, che ci concesse un fido senza garanzie”. E De Benedetti che si è autodefinito “fondatore”? Scalfari racconta che “per far nascere la Repubblica io e Caracciolo avevamo bisogno di cinque miliardi di lire. La Mondadori ne mise la metà”. CDB, che era allora presidente degli industriali di Torino, diede cinquanta milioni. “Ma non voleva che si sapesse. Disse che lo faceva perché gli piaceva il progetto. Ma aggiunse: non lo racconti mai a nessuno… Non lo racconti, ma non lo dimentichi”. E Scalfari aggiunge: “Sicuramente ce ne siamo ricordati quando gli abbiamo venduto Repubblica”.
I debiti, la penuria di capitali propri, il fardello che opprime la stampa italiana. Le vendite non sono mai bastate a far marciare le rotative
Per la verità, di aiuti e salvataggi il quotidiano ne avuti altri, nel momento del bisogno, per esempio dall’uomo d’affari Giuseppe Ciarrapico, cliente politico di Giulio Andreotti, ai tempi dello scontro con Silvio Berlusconi per il controllo della Mondadori. Ma allora fece tutto Carlo Caracciolo, il principe di sinistra amico del fascista, come egli stesso raccontato nel libro-confessione “Un editore fortunato”. Il ruolo di Ventriglia resta molto intrigante, in particolare per il legame del banchiere con Carli che a sua volta aveva un rapporto diretto con Scalfari al quale amava affidare notizie e soprattutto riflessioni pubblicate sull’Espresso con la firma Bancor. Il Banco di Napoli, per tutto il dopoguerra, aveva tenuto in mano la stampa partenopea, soprattutto il Mattino, ceduto nel 1976 alla Rizzoli. Il generoso affidamento alla Repubblica non introduceva, dunque, nessun conflitto di interessi sul mercato dei giornali, ma faceva trapelare chiaramente l’idea che la banca fosse non un’azienda come le altre, bensì una istituzione, anzi un pilastro del sistema. Ventriglia ne era più che convinto e aveva improntato a questo precetto l’intera sua carriera. Non era certo il solo, tuttavia il banchiere napoletano è stato davvero una figura paradigmatica anche se pochi oggi amano ricordarlo.
Nato a Capua il 29 marzo 1927, si era laureato in Economia e commercio all’Università di Napoli. Aveva una grande capacità di sintesi, di vedute d’assieme e felici intuizioni accoppiate a una conoscenza tecnica non comune. Studente modello, si era diplomato a soli sedici anni e laureato a venti. Raccontava egli stesso che il severissimo padre lo svegliava alle 4 meno un quarto del mattino per interrogarlo in ragioneria e tecnica bancaria. “Nessuno mi ha mai regalato niente, a me”, amava dire citando episodi di una formazione d’altri tempi, fatta di burocratica disciplina borbonica. Nel 1947 si iscrive alla Fuci, l’organizzazione universitaria democristiana poi entra all’ufficio studi del Banco di Napoli. Nando, come lo chiamavano gli amici, si distingue e il suo nome viene fatto a Pietro Campilli, ministro democristiano del Mezzogiorno, che lo porta a Roma. Nei primi anni Sessanta, Ventriglia passa al Tesoro con Emilio Colombo. Nel ’66, torna al Banco di Napoli, dove diventa presto direttore generale. Tre anni dopo, nuova partenza per vette più elevate: il Banco di Roma, come amministratore delegato. Vi rimane dal 1969 fino al ’75, rimette in ordine il bilancio e rafforza la struttura patrimoniale dell’istituto controllato dall’Iri, ma inciampa su Michele Sindona, il finanziere italo-americano diventato uno snodo del grande gioco grazie all’abilità con la quale spostava all’estero i quattrini del Vaticano. Anche la banca romana, soprattutto con le sue consociate estere, entra nel carosello.
Il vecchio banchiere confida: "Siamo stati noi il baluardo della informazione, anzi, dico di più, della libertà di stampa in Italia"
Quando la Banca Privata, braccio operativo di Sindona, finisce in bancarotta, Ventriglia viene convocato dai giudici. Ne esce “con le mani pulitissime”, come dichiara trionfante. Eppure su di lui s’allunga da allora l’ombra del sospetto. I suoi nemici insinuano che si sia salvato grazie alla “lista dei 500”, cioè l’elenco di potenti che hanno esportato capitali grazie a Sindona. “Tutte strunzate”, risponde, beffardo come al solito. Ma intanto perde la più grande occasione della sua vita: diventare governatore della Banca d’Italia. Nel 1974 Guido Carli, sempre suo grande amico, lo vorrebbe come successore, all’ultimo momento, però, viene stoppato da Ugo La Malfa, che si era formato all’ufficio studi della Commerciale ed era molto vicino a Cuccia. Il banchiere, come ricompensa, diventa direttore generale del Tesoro, dove rimane fino al ’77 guadagnandosi l’encomio solenne della politica e della comunità finanziaria per aver negoziato il salvataggio dell’Italia da parte del Fondo monetario, nel bel mezzo delle due crisi petrolifere che interrompono per sempre (salvo brevi scatti) la corsa dello stivale. Il professore, come viene chiamato nell’ambiente politico romano, esce con le medaglie dal fortilizio di via XX Settembre e torna in banca, prima con la presidenza dell’Isveimer e poi nel 1983, nel “suo” Banco di Napoli. Qui comincia una espansione senza soluzione di continuità finché il sistema di potere comincia a sfaldarsi nella lotta fratricida tra le tribù democristiane: gavianei, pomiciniani, didonatiani, andreottiani, demitiani.
La spartizione, applicando in modo ferreo il manuale Cencelli, diventa sempre più fine a se stessa. La guerra interna non fa prigionieri e su Re Ferdinando, consumato dal male e amareggiato, maramaldeggia la magistratura. Subisce un avviso di garanzia e viene sospeso per alcune nomine giudicate illegittime al vertice della Fondazione. Le sue mani risultano di nuovo “pulitissime”, ma ormai non può che gestire il proprio declino, professionale, fisico, umano. “E’ tutto finito, mi hanno addirittura murato una parte dell’ufficio”, confessa poco prima di morire divorato dal cancro. Intanto, gli ispettori della Banca d’Italia aprono i cassetti e spalancano il sancta sanctorum, dove c’era anche il fido senza garanzie alla Repubblica.
Sostegni ai giornali non sono mancati nemmeno dalla Banca di Roma (poi Capitalia) guidata da Cesare Geronzi. Aiuti ad ampio raggio e di diversa connotazione politico-editoriale: dal Manifesto grazie ai rapporti di amicizia con Valentino Parlato a Libero comperato dalla famiglia Angelucci entrata anche con una piccola quota nel capitale della banca. Nel ripercorrere gli anni Novanta, quando salvò Berlusconi dai debiti, portando Mediaset in Borsa e rifinanziandola, Geronzi ricorda: “Come presidente della Banca di Roma e membro del consiglio di amministrazione di Mediobanca, più volte avevo sostenuto con l’imprenditore Berlusconi che la soluzione dei suoi problemi era il collocamento in Borsa. O lo faceva l’Imi, o Mediobanca, o la Banca di Roma. Andammo ad Arcore in tre: Cuccia, Maranghi e io. Berlusconi ci spiegò l’operazione in modo sintetico e preciso. Ma, appena la nostra macchina uscì dal cancello, Cuccia disse a me, che ero seduto dietro accanto a lui: ‘Questa operazione non si può fare’. E perché? gli chiesi. ‘Perché i bilanci sono falsi. Le cifre di Berlusconi non sono vere, ma virtuali. Quanto vale un’antenna? Un’antenna non è una ciminiera, non ha sotto un opicifio’. Sul successo delle tv commerciali non ci sono dubbi e Cuccia si era clamorosamente sbagliato. Comunque, alla fine Mediaset venne quotata da Imi e da Banca di Roma. ‘Fu un affare per l’azienda, ma fu un affare anche per noi – spiega Geronzi – La quota di garanzia della banca fu di 300 miliardi, con le azioni a 7 mila lire. Quando furono ricollocate, 4 o 5 mesi dopo, valevano tra le 18 e le 21 mila lire’. Dunque, aveva fatto il proprio mestiere, ma è anche vero che senza quella operazione la storia della televisione privata e di tutto il gruppo Fininvest sarebbe stata molto diversa. E forse anche la storia politica italiana, visto che coincise in sostanza con la discesa in campo del Cavaliere.
Scalfari ha raccontato che la Repubblica venne tenuta in vita non da De Benedetti, ma da un banchiere, Ferdinando Ventriglia
L’intreccio più intrecciato, come avrebbe detto Gioacchino Rossini, resta il Corriere della Sera: nel salotto del giornale passano la Banca Commerciale, il Banco Ambrosiano vecchio e nuovo, Mediobanca con Cuccia che bon gré mal gré contraddice se stesso, e poi Banca Intesa. Via Solferino si conferma l’incrocio principe del sistema mediatico-finanziario italiano soprattutto a partire dagli anni Settanta, quando Giulia Maria Crespi, erede della famiglia di industriali tessili proprietaria del quotidiano, è con l’acqua alla gola e chiede aiuto a Gianni Agnelli il quale acquista il 33 per cento pagandolo 13,5 miliardi di lire. Insieme a lui, la famiglia Moratti con la stessa quota. Dura appena un anno, fino al 1974, perché l’Avvocato vuol fare il presidente di Confindustria e non intende avere contro Amintore Fanfani che lo aveva costretto ad abbandonare l’Espresso e suo cognato Caracciolo inviso al leader democristiano. A quel punto, Andrea Rizzoli compera per 13 miliardi e mezzo in tre rate annuali indicizzate, l’intera quota Fiat (Agnelli dunque non perde un centesimo). E ne spende altri 14 per quella di Moratti, indebitandosi e gettando le basi del disastro che ricade sulle spalle del figlio Angelo. A sostenerlo è il Banco Ambrosiano guidato da Roberto Calvi, antica banca della diocesi milanese ammessa nel crocevia dei grandi poteri tra Vaticano e Stati Uniti dopo la caduta di Michele Sindona. Un gioco così pericoloso da spingere Calvi nelle braccia della massoneria anzi della loggia coperta Propaganda 2 associata al Grande oriente d’Italia.
Il 17 marzo 1981 una perquisizione della Guardia di finanza nella villa di Castiglion Fibocchi appartenente a Licio Gelli, maestro venerabile della loggia P2, trova un elenco di affiliati che fa tremare la politica, l’industria, l’informazione. Tra questi, Calvi, Rizzoli e i vertici del Corsera. Due anni dopo vengono arrestati Angelo Rizzoli e il suo amministratore delegato Bruno Tassan Din. Il Corriere della Sera è una voce senza più padrone. La casa editrice entra in amministrazione controllata e nell’ottobre dell’anno successivo, il 46 per cento del capitale viene acquisito dalla Gemina, una delle tante scatole vuote delle quali abbonda la finanza, estratta dalla Montedison e affidata a Cesare Romiti, il plenipotenziario di Agnelli alla Fiat e dintorni. In realtà, Enrico Cuccia sconsiglia caldamente Gianni Agnelli. Anche Romiti ammette che nemmeno lui lo voleva e ricorda che “fece tutto Giovanni Bazoli”, l’avvocato bresciano incaricato da Beniamino Andreatta, allora ministro democristiano del Tesoro, di ricostruire l’Ambrosiano dalle proprie ceneri. E’ lui a convincere Agnelli a diventare, attraverso Gemina, l’azionista di riferimento del Corsera (Bazoli entra nella cordata con la Mittel, una società finanziaria). “Io cercavo di temporeggiare – rammenta ancora Romiti – Bisogna tener conto che l’Avvocato aveva due grandi passioni: i giornali e la diplomazia. E frenarlo nelle sue passioni era impossibile”.
Questo equilibrio azionario dura per quasi vent’anni sia pure con alcune varianti. Dopo la morte di Gianni e Umberto Agnelli, l’erede John Elkann, innamorato anche lui di editoria, tanto da diventare azionista di riferimento dell’Economist, cerca di imprimere il proprio segno sul gruppo Rcs oberato di debiti. Ma non riesce, tanto che si ritira nel marzo 2016. A quel punto sono due banche a contendersi il futuro: Mediobanca e Intesa Sanpaolo, entrambe azioniste e creditrici. Vincerà la creatura di Bazoli mettendo in campo Urbano Cairo che, con una offerta pubblica di scambio, diventa il nuovo patron. Ma questa è cronaca recente che sta sotto gli occhi di tutti. Intesa Sanpaolo rimane azionista sia pur con una piccola quota per tutelare crediti e investimenti, ma anche per non mollare lo storico presidio. Sul letto di morte, l’Avvocato aveva chiesto a Bazoli di occuparsi delle sorti del Corriere e il professore, Nanni per gli intimi, non è certo uomo da mancare a certe promesse.
Banche e mass media, uomini di finanza e giornali; il connubio resta, cambia la pelle, non il vizio. O la virtù, stando a un vecchio banchiere che tanto ha fatto anche per l’editoria: “Siamo stati noi il baluardo dell’informazione, anzi, dico di più, della libertà di stampa in Italia”. Un’affermazione che fa scandalizzare i veri liberali fautori degli editori puri e nemici dei conflitti d’interesse. E se, invece, avesse ragione lui?