L’amministratore delegato di Tim Amos Genish. Foto LaPresse

La strada in salita di Tim per lo scorporo della rete

Renzo Rosati

Genish conferma che il piano verrà presentato al cda il 6 marzo, ma la trattativa successiva non sarà semplice. Dietro all'apertura sulle infrastrutture c'è ancora l'idea di sviluppare contenuti multimediali

L’annuncio di Tim, ex monopolista telefonico oggi controllato dai francesi di Vivendi, di voler scorporare la rete creando una società a parte ha fatto volare in borsa il titolo Telecom Italia (più 5,85 per cento), soprattutto dopo l’incontro positivo tra l’amministratore delegato Amos Genish e il ministro dello Sviluppo Carlo Calenda. Genish ha confermato che lo spin-off verrà presentato al consiglio di amministrazione di Tim il 6 marzo, due giorni dopo le elezioni, come parte di un piano industriale che comprende anche una ristrutturazione con 6.500-7.500 esuberi. Calenda, che aveva battagliato non poco con l’“incumbent” ora in mani straniere, e in linea con i governi di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni aveva spinto per la realizzazione di una rete ottica a banda ultralarga affidata ad Enel attraverso Open Fiber (partecipata da Enel e Cassa depositi e prestiti, quindi a controllo pubblico), ha definito la decisione francese “una svolta epocale”. Di certo è una scesa a più miti consigli da parte degli uomini di Vincent Bolloré, proprietario di Vivendi, che finora hanno considerato la loro rete come asset proprietario, come in effetti è, diffidando il governo da tentazioni nazionaliste, e boicottando i tentativi di sedersi al tavolo per realizzare un’unica rete nella quale temevano, e temono, la presenza ingombrante della Cdp e l’utilizzo italiano della golden power o di strumenti simili.

   

Dopo l’incontro con Genish, Calenda ha precisato che “a valle del board di Tim lavoreremo insieme per prendere tutte le decisioni, un lavoro molto significativo. La normativa sul golden power prevede una persona di gradimento nel consiglio di Tim e così sarà anche nella nascente società della rete”. Chi oggi vede la questione dal punto di vista soprattutto finanziario compra titoli Telecom sia per i benefici che gli spin-off normalmente portano, sia perché la sensazione è che l’azienda non abbia le risorse adeguate per gestire e ammodernare la vecchia rete telefonica, preferendo occuparsi del business più congeniale dei contenuti. Sensazione rafforzata da una decisione interna che sta facendo discutere i piani alti di Tim, e ha messo in subbuglio i suoi fornitori. Michel Sibony, uomo di fiducia di Bolloré in tutta la sua galassia societaria e che da gennaio ha anche la supervisione degli acquisti di Telecom Italia (il direttore dell’area Eduardo Perone se ne era andato a metà dicembre 2017 e l’interim dovrebbe formalmente essere nelle mani del più morbido Genish), ha comunicato alle aziende fornitrici tagli anche retroattivi del 20 per cento rispetto a trattative in corso e contratti già chiusi attraverso aste. L’indotto italiano e straniero di Telecom, si è ribellato: in ballo ci sono circa 10 miliardi, alcune decine di aziende e svariate migliaia di persone che vi lavorano. A comunicare per prima la propria indisponibilità, facendo balenare anche denunce penali, è stata però la Sirti, storica azienda italiana di proprietà di Pillarstone, fondo d’investimento controllato da Intesa e Unicredit. Per sabato, in coincidenza con uno spot Tim al festival di Sanremo, i sindacati hanno annunciato una manifestazione nel capoluogo della canzone italiana.

   

La questione è stata esaminata la settimana scorsa dal comitato controllo e rischi di Telecom, nel quale sarebbe stato chiesto a Genish di fare la colomba. Alcuni ribassi sono stati ridotti al 10 per cento. Ma l’ad è andato molto oltre con l’annuncio della nuova NetCom. Annuncio che, semplificando, porterebbe ad una collaborazione tra il gruppo privato francese e le aziende pubbliche italiane per la convergenza verso una unica rete a banda ultralarga. Non è però un percorso semplice, come rileva anche The Economist. Le due reti, quella esistente di Tim e quella nascitura di Open Fiber, sono basate su tecnologie differenti. La rete Tim è in gran parte in rame, quella italiana interamente in fibra digitale per supportare sia la canalizzazione dei contenuti, sia le necessità di Industria 4.0 e di quant’altro voglia smaterializzare e accelerare i processi produttivi.

   

Combinare assieme i due network, per come sono mesi attualmente, porta a problemi, equivoci e anche trabocchetti. La stessa pubblicità che promette la fibra ottica ai normali consumatori è spesso fuorviante – e della questione si sta occupando il garante delle comunicazioni – in quanto la rete Tim è Ftc (fiber to cabinet, arriva cioè alla cabina in strada che può distare centinaia di metri), mentre la rete Oper Fiber interamente Fth (fiber to home, cioè fin dentro gli appartamenti). La stessa cosa vale per industrie, uffici, infrastrutture. Tuttavia sulla rete Telecom, proprio per la sua articolazione, continuano a viaggiare molti dati sensibili, comprese le comunicazioni delle forze dell’ordine (braccialetti elettronici inclusi), i dati dell’anagrafe tributaria e dell’Inps, i dati bancari. In altri termini, l’intero network va rinnovato.

   

Probabilmente lo scorporo della rete andava fatto quando fu privatizzata la Telecom, con i governi Prodi-D’Alema prima e Berlusconi dopo. Seguendo allora lo stesso schema attuato per le reti ferroviarie, dell’energia e delle autostrade, con la concorrenza aperta agli operatori di servizi. Dunque è giusta la soddisfazione di Calenda, che ha sempre avuto in mente la divisione tra infrastruttura e servizi, con un ruolo della Cassa depositi e prestiti (peraltro recalcitrante) nella prima. Diversamente l’Italia sarebbe l’unico paese importante ad avere due reti di telecomunicazione, con ricadute prevedibili anche a livello politico e sindacale, specie con le sirene nazionaliste e sovraniste pronte a dar fiato alla propaganda. Ma la trattativa non si preannuncia in discesa: Tim difende i suoi interessi, il prossimo governo dovrebbe – oltre a formarsi – avere una strategia di politica industriale chiara, e magari separare l’interesse nazionale dalla tentazione di (inattuabili) espropri.

  

Non c’è però solo questo. Se realmente Tim apre a una partnership sulla rete, avrà le risorse per dedicarsi a quello che nella mente del suo controllore Bolloré è il vero obiettivo e core business: i contenuti ed i servizi multimediali. Il che riapre l’intero fronte Mediaset. Se in chiave ostile o amichevole con il gruppo di Silvio Berlusconi, lo diranno, anche questo, le elezioni.

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