L'America di Trump non compra più armi, Remington dichiara bancarotta
Alla Casa Bianca c’è un sostenitore del secondo emendamento e le persone non corrono più ai negozi per armarsi. Perché la crisi dello storico marchio è (anche) causata dalla presidenza di The Donald
Le armi non vanno più di moda sotto la presidenza di Donald Trump. E’ il paradosso su cui si regge la crisi economica di Remington. Lo storico produttore statunitense ha dichiarato bancarotta. Le vendite sono in calo da diversi mesi, e la colpa è - anche - di Donald Trump. Se alla Casa Bianca c’è un fervido sostenitore e “vero amico” della National rifle association , commenta l’Economist, le persone “non devono più accorrere nei negozi a comprare un arsenale prima che sia troppo tardi”. Il secondo emendamento, se mai lo è stato, non è certamente più in discussione, con l’elezione di Trump.
“Essendo necessaria, alla sicurezza di uno Stato libero, una milizia ben regolamentata, non potrà essere infranto il diritto dei cittadini di detenere e portare armi”. Così recita la celebre norma, tra le più discusse della legislazione statunitense, redatta nel 1789. La storia di Remington inizia meno di un trentennio dopo. Era il 1816, quando Eliphalet Remington II si convinse che avrebbe potuto costruire un’arma più performante di quelle in commercio, e iniziò la progettazione di un fucile a pietra focaia. In pochi anni, il “Mississippi” era un successo nazionale, tanto che nel 1845 ne furono prodotti 5 mila esemplari per l’esercito statunitense.
Da allora, fino ad oggi, Remington è stato un marchio riconoscibile, americanissimo: un nome forgiato dal mito della frontiera e dal suo utilizzo da parte dell’esercito. Poi ci sono state le sparatorie nelle scuole e la crisi economica, culminata lunedì con la dichiarazione di bancarotta, sconfitta definitiva di un modello di business che ora si vede costretto a ricorrere al Chapter 11 - la norma della legge fallimentare statunitense che consente alle imprese una ristrutturazione in caso di insolvenza. Il proprietario di Remington, il magnate Stephen Feinberg, alle scorse elezioni ha sostenuto Donald Trump, dopo che la sua Cerberus capital management aveva acquistato il marchio nel 2007.
La storia della crisi di Remington è curiosa, soprattutto perché le fortune dell’azienda, scrive il Washington Post, hanno iniziato a subire i primi colpi dopo l’elezione di Trump. Proprio il presidente autoproclamatosi “un amico vero” dell’industria delle armi. La sconfitta di Hillary Clinton ha reso meno probabile la perdita della possibilità di accesso alle armi. Le vendite dall’8 novembre 2016 sono crollate, i rivenditori hanno iniziato a smettere di emettere nuovi ordini e si sono trovati con montagne di prodotti non venduti. Come spiega Bloomberg, nel 2016 c’è stata un’impennata nella produzione, dovuta a quelli che vengono chiamati “super owners”: persone cioè che - per sicurezza - compravano più di una pistola. Metà delle armi erano nelle mani del 3 per cento della popolazione, in possesso di circa 17 armi da sparo ciascuna.
Richard Feldman, presidente dell’Indipendent firearm owners association, sostiene che si tratti di un semplice ciclo economico. “Se i democratici risorgeranno a novembre, le vendite torneranno a salire”. Non è solo colpa della situazione politica. Remington aveva già subìto un brutto colpo alla sua reputazione dopo la strage alla scuola di Sandy Hook in Connecticut, in cui l’assalitore aveva un fucile d’assalto Remington Bushmaster. Era il 2012, e quattro giorni dopo Cerberus disse che avrebbe venduto la società, cosa che poi non avvenne. Anche perché l’industria delle armi si era ripresa alla grande, specie durante la campagna elettorale che secondo le previsioni sarebbe stata vinta da Hillary Clinton. Il timore di molti sostenitori del diritto di sparare era che ci sarebbe stato un imminente giro di vite sul secondo emendamento. Tanto che proprio in quell’anno le vendite erano salite. Un clima di ansia collettiva che aveva spinto alcuni rivenditori a fare persino degli sconti “pre-Hillary”. Ma con la presenza alla Casa Bianca di un “vero amico” delle armi e della temutissima National rifle association, quell’atmosfera si è incrinata, insieme alle vendite. Nel 2017 la perdita operativa ha raggiunto i 28 milioni di dollari. Pistole e fucili hanno perso il loro appeal nell’elettorato trumpiano, quello più incline ad armarsi, ma si verificano delle crescite tra i clienti afroamericani e Lgbt, che temono un’impennata di violenza razziale o basata sul gender. Gruppi di persone che però non riescono a rimpiazzare i “super owner”.
Remington, intanto, ha trovato un accordo con i creditori per ristrutturare almeno 700 milioni di dollari del miliardo di debito accumulato. Nel frattempo la compagnia continuerà a operare come suo solito, in attesa della decisione della corte federale del Delaware. E, forse, di una nuova minaccia che possa far tornare il marchio - e l’industria in generale - ai fasti pre-Trump.