Le ricette dei partiti per colmare il gap con l'Europa sul rapporto tra la donna e il mercato del lavoro
Analisi dei programmi elettorali sull'occupazione femminile, in quello del M5s se ne parla solo in un punto: “superamento della Legge Fornero”
Dai dati Istat di dicembre si evince che, al netto di qualche lieve miglioramento su base tendenziale – peraltro inferiore a quello degli altri paesi – il tasso di occupazione femminile in Italia è fermo al 49 per cento contro il 67,2 di quello maschile. La scarsa partecipazione delle donne al mercato del lavoro non è certo un problema nuovo. Da diversi anni, ormai, la Commissione europea ci “raccomanda” di intervenire “urgentemente” per ridurre il suddetto gap. Eppure ben poco è stato fatto. I dati Eurostat parlano chiaro.
Le donne italiane occupate tra i 20 e i 64 anni sono state nel 2016 il 51,6 per cento, 13 punti in meno rispetto alla media dell’area dell’euro (64,4 per cento), 23 in meno della Germania (74,5) e ben al di sotto dei livelli registrati nei paesi che in questi anni di crisi hanno ricevuto aiuti finanziari esterni come l’Irlanda (64,5 per cento), la Spagna (58,1) e il Portogallo (67,4). Numeri simili dovrebbero indurre i partiti politici a mettere la questione femminile al centro dei rispettivi programmi elettorali. Il rafforzamento della ripresa in corso passa necessariamente attraverso l’incremento del tasso di occupazione totale, pari al 61,6 per cento, 9 punti sotto la media dei paesi euro, mentre quello maschile (al 71,6) è quasi in linea con quello degli altri stati membri (75,6). Pertanto, agire in maniera decisa su quello femminile diventa imprescindibile.
A questo proposito, è quindi utile fare un confronto tra i programmi del Partito democratico, del Movimento 5 stelle, della coalizione di centrodestra, di Più Europa e Liberi e uguali per capire le misure che le diverse forze in campo intendono attuare per accrescere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro.
Il programma più dettagliato è senza dubbio quello del Partito democratico. Si va dai bonus alle famiglie con figli fino al ventiseiesimo anno di età (non è chiaro se a tutti come scritto nella versione breve o se c’è un tetto come scritto – 100 mila euro – nella versione lunga), allo smart working per le mamme, al bonus babysitter e asili nido di circa 400 euro al mese per ogni figlio per i primi 3 anni di vita, una cifra non indifferente ma che potrebbe rivelarsi inutile visto che attualmente, in Italia, solo un bimbo su quattro trova posto in un asilo nido. A questi “bonus”, si aggiunge anche quello per le mamme che vogliono tornare subito al lavoro senza aspettare i tre mesi garantiti per legge. Costo complessivo dell’operazione, circa 12 miliardi. Le coperture, invece, non sono precisate, come non lo sono gli obiettivi perseguiti: più consumi, più figli, più occupazione femminile? Il programma è privo di target quantitativi. Eppure nei 100 punti (il terzo documento che il Pd mette a disposizione) nella colonna delle “cose da fare”, i punti 96, 97 e 98 indicano con chiarezza i target da raggiungere nell’arco della legislatura in termini di disoccupazione totale (sotto il 9 per cento), giovanile (sotto il 20) e occupati (oltre 24 milioni). Quante donne si ipotizza che troveranno un’occupazione grazie alle suddette misure, invece, non è stato specificato.
Sul piano dei servizi, le misure proposte da Più Europa sono simili a quelle del Pd. Per quanto riguarda gli asili nido, il partito pone l’accento sull’estensione degli orari di chiusura delle strutture per l’infanzia, un modo per consentire alle donne “il pieno svolgimento dell’attività lavorativa”. Si tratta di una misura importante se si considera che, in questo modo, si potrebbe ridurre la percentuale (oggi la più elevata d’Europa, oltre il 17 per cento) delle donne in “part-time involontario”, una condizione che rende più difficili i progressi nella carriera professionale di una donna e, in futuro, rischia di creare un esercito di pensionate povere. Anche in questo caso, le coperture non sono specificate ma, a differenza del Pd, è ben spiegato che le suddette misure dovranno essere attuate nel rispetto degli equilibri di finanza pubblica: quindi prima si rimettono in ordine in conti (more in good times, come dice la Commissione), congelando la spesa nominale, poi si abbassano le tasse in modo strutturale per rilanciare lo sviluppo l’economico.
Anche il programma del centrodestra prevede asili nido, assegni familiari (una sorta di bonus), quozienti familiari. Il riferimento al “lavoro femminile (al punto 7 su 10) è unicamente per la categoria delle “giovani madri”. Sempre nello stesso punto, il programma specifica che la coalizione si impegnerà nella “difesa delle pari opportunità”, anche attraverso il riconoscimento di un assegno pensionistico a favore delle madri, una misura, peraltro, già inserita nel punto 4. Pure questo programma è privo di target di occupazione femminile da raggiungere, nonostante “pari opportunità” significhi soprattutto “parità di salario” tra uomo e donna. C’è da chiedersi, però, come questo obiettivo, inserito peraltro anche nel programma del Partito democratico e in quello di Liberi e uguali (che al punto 3 promettono “l’annullamento del divario salariale tra uomini e donne”), possa essere raggiunto senza aver stabilito ex ante un obiettivo quantitativo in termini di più donne sul mercato del lavoro. Costi e coperture mancano anche nei punti programmatici del centrodestra.
Sulla questione del lavoro femminile il programma sicuramente più carente è quello dei Cinque stelle. Nei 20 punti elencati, la parola donna compare solo nel punto finale dal titolo “superamento della Legge Fornero” e viene associata alla possibilità di andare in pensione prima dei termini stabiliti. Per poter uscire dal mercato del lavoro in modo anticipato e scegliere, così, la cosiddetta “opzione donna” bisogna, però, prima essere entrati! Misure volte a raggiungere questo scopo non sono illustrate.
In sintesi, la gran parte dei programmi elettorali si occupa del lavoro femminile ma lo fa senza una visione strategica, coperture certe e volontà di calcare la mano per far fronte ai cosiddetti “gender bias”, le discriminazioni di genere. Per fare un esempio, se aumenta l’offerta di posto negli asili nido, il rischio è che a riprendere il bimbo a metà pomeriggio sarà sempre la donna, che si vedrà costretta a accettare lavori part-time. Se, invece si intervenisse per aumentare il “potere negoziale” delle donne all’interno della coppia, ad esempio con una qualche forma di intervento fiscale (tassazione, deduzioni, detrazioni) – una sorta di distorsione, certo, ma temporanea, il tempo necessario per cambiare i rapporti di forza tra uomini e donne –, si potrebbe introdurre il giusto incentivo per mandare i papà – e non più le mamme – a prendere i bimbi (queste “distorsioni”, peraltro, servirebbero per incentivare il lavoro di tutte le donne, non solo quelle con figli). In altre parole, per recuperare i 14 punti di gap è necessario mettere in atto un piano organico di medio/lungo periodo. Ciò richiede una riflessione di tutte le forze politiche, specie da parte delle donne che devono far sentire la loro voce e la loro sensibilità. Anche per rassicurare soprattutto gli uomini, spiegando loro che “più donne non significa meno uomini sul mercato del lavoro”, bensì più ricchezza per tutti.
E, invece, con la nuova legge elettorale si rischia che le donne abbiano sempre meno potere decisionale. Per come è stato costruito, il Rosatellum rischia di favorire gli uomini, sebbene ex ante le candidature siano ripartite in parti uguali. Questo perché vi sono molte donne in più collegi e, pertanto, possono “liberare” posti ai secondi eletti che nella gran parte sono uomini. Basti pensare che anche il sottosegretario Boschi, che pur avendo una delega alle Pari opportunità contribuirà con le sue cinque candidature (cui si aggiunge quella “blindata” di Bolzano) ad agevolare il meccanismo sopradescritto, non renderà un favore alle esponenti del proprio genere. Va detto che, a eccezione del Movimento 5 stelle, a far ricorso a questo “trucchetto” sono stati tutti i partiti. E’ chiaro, però, che l’uso massiccio che ne ha fatto il Partito democratico lascia perplessi, se si considera che il fiore all’occhiello del presidente Renzi era stato l’aver voluto la parità di genere del suo governo con 5 uomini e 5 donne (parità durata troppo poco visto che le ministre uscenti sono sempre state sostituite con nuovi ministri).
Se le misure di politica economica volte a incrementare l’occupazione femminile continueranno a essere prese da una maggioranza di uomini, le donne non possono davvero “stare serene”, visti i risultati ottenuti. Non è infatti un caso se l’unica legge che ha cambiato “molto” un “piccolo” segmento del mercato del lavoro, quello dei Consigli di amministrazione delle società quotate e di quelle partecipate dallo stato, è stata voluta proprio da due donne: Lella Golfo e Alessia Mosca.