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Così le sirene americane cambiano le regole dell'attrazione degli investimenti

Alberto Brambilla

La sostituzione dell’export italiano con imprese negli Stati Uniti è una prospettiva reale. Quali sono i possibili effetti della riforma fiscale di Trump 

Roma. Vista dall’America l’Italia non è un paese investitor-repellente come ad esempio lo stallo politico-giudiziario per l’acquisizione dell’acciaieria Ilva da parte di ArcelorMittal può autorizzare a pensare. L’interesse degli investitori esteri verso l’Italia è migliorato in forza delle riforme interne e del rilancio dell’economia continentale della Banca centrale europea. Secondo un report della società di consulenza americana At kearney, basato su sondaggi tra operatori, la fiducia verso l’Italia è migliorata tra il 2016 e il 2017 e il paese è salito dal 16esimo al 13esimo tra le venticinque maggiori economie del mondo perché è percepito in modo più positivo. Nel 2016 – ultimi dati disponibili – gli investimenti diretti esteri sono cresciuti del 50 per cento rispetto all’anno precedente da 19 a 29 miliardi di euro. Nel 2017 invece ci sono state diverse operazioni americane in Italia: dall’acquisto di crediti deteriorati da parte di fondi specializzati (Bain Credit, Fortress, Davison Kemper) di asset industriali (le cartiere Fedrigoni a Bain, il cioccolato di Irca e i call center di Comdata andati al fondo Carlyle). Il 2018 si è poi aperto con l’acquisizione della compagnia ferroviaria Ntv-Italo da parte del fondo americano Global infrastructure partners per 2,5 miliardi di euro.

  

C’è però spazio per spingere flusso di investimenti diretti. In generale è basso, pari al 18,6 per cento del pil. Mentre per l’America in particolare l’Italia resta la 38esima destinazione degli investimenti. Un andamento crescente non è scontato, data l’incertezza politica e indicatori macroeconomici buoni ma non granitici. Fernando Napolitano, manager di lungo corso, già membro dell’Aspen Institute e del Council on foreign relations, ora amministratore delegato della Italian Business Investment Initiative di New York, cerca di sollevare il tema di come aumentare l’appeal del paese. Nella prossima fase politica mancheranno alcune certezze mentre rimarranno antiche debolezze. “Ci apprestiamo ad andare a elezioni con un quadro macro-finanziario delicato – dice al Foglio – Abbiamo una popolazione con un’età avanzata, l’anno prossimo perderemo Mario Draghi alla Banca centrale europea, e chiunque arriverà alla guida del paese abbiamo bisogno di un piano che rassereni i nostri creditori”. Inoltre, secondo Napolitano, la riforma fiscale dell’Amministrazione Trump – mirata al ritorno delle attività produttive negli Stati Uniti, via deducibilità immediata delle spese di investimento e corporate tax più bassa – potrebbe cambiare le regole dell’attrazione nella competizione mondiale per attirare capitali.

  

Oggi a Roma si parlerà proprio delle “Sfide per i ceo nell’èra Trump” in un convegno dove parteciperanno Francesco Starace (Enel), Domenico Arcuri (Invitalia), Luigi Ferraris (Terna), Guido Nola (JP Morgan) per anticipare la conferenza “International Business Exchange: Investing in Italy and a new Europe” del 22 febbraio a New York. “L’impatto della riforma fiscale si vedrà ma sarà imponente perché cumula due effetti innovativi: alleggerisce la tassazione sulle aziende e attirerà capitali in America”. Questo è “un campanello d’allarme”, dice Napolitano, perché alcune aziende potrebbero essere indotte a localizzare la sede principale e gli stabilimenti produttivi lì diminuendo di conseguenza l’export italiano oltreoceano. Rispetto ai 45 miliardi di export italiano negli Stati Uniti, il numero di imprese italiane in America è ancora esiguo. Il grosso degli investimenti esteri italiani è guidato da Fiat-Chrysler Automobiles. Dal 2011 il gruppo alimentare Rana ha uno stabilimento in Illonois. La farmaceutica la Kedrion di Lucca a Long Island dal 2015. La farmaceutica è una delle principali voci dell’export italiano nel mondo. Il mix trumpista di barriere tariffarie che colpirebbero i beni esteri importati, favorendo i beni prodotti negli Stati Uniti, unito all’incentivo all’investimento diretto sul mercato americano possono spingere le imprese a installarsi direttamente in America producendo tramite filiere locali. La sostituzione dell’export con imprese in loco è una prospettiva reale. E comunque la si guardi è una sfida sia per chi vorrebbe ascoltare le sirene americane sia per chi intende irrobustire le radici italiane.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.