Il caso Embraco e le delocalizzazioni: non c'è solo Slovacchia
Anche l’Albania ha il suo appeal. Parla Michele Mario Elia, country manager della società Tap
Roma. Non è solo la Slovacchia a fare parlare di sé in questi giorni, dopo che Whirlpool l’ha scelta per delocalizzare l’azienda di compressori Embraco dal Piemonte. Michele Mario Elia, country manager per l’Italia della società Tap – quella che realizza la Trans Adriatic Pipeline, il gasdotto dall’Azerbaigian alla Puglia osteggiato dai movimenti antagonisti sostenuti, in certi casi, dalla politica locale. Elia, ex manager delle Ferrovie dello stato, è convinto che per la realizzazione del gasdotto non ci saranno problemi: “Ho sempre detto che Tap deve significare anche ‘Tutto A Posto’”, dice al Foglio Elia, che qualche giorno fa ha partecipato al convegno “Follow the energy” organizzato dalla rivista Il nodo di Gordio. Elia dice di essere appena tornato dalla missione imprenditoriale in Albania, promossa da Ice e Confindustria, che ha portato 178 aziende, 14 tra associazioni industriali, di categoria e istituzioni pubbliche e tre banche in un paese di cui l’Italia è primo partner commerciale e primo investitore, e che sta crescendo al ritmo del 3,7 per cento annuo.
“Il primo ministro albanese ci ha detto che chi va a investire sul turismo non paga tasse per 10 anni, salvo un 6 per cento sull’Iva: una cosa incredibile!”, spiega Elia. E all’Albania il Tap interessa molto perché la pipeline passa anche da lì, dove non esiste una rete di distribuzione del gas. “Stiamo facendo uno studio di fattibilità sul Corridoio sud del gas verso l’Italia, per consentire due allacci importanti: uno che sale verso la Croazia e l’altro che dalla Grecia va verso la Bulgaria. Si può contribuire al mercato del gas in Albania, con enormi possibilità di lavoro per le imprese italiane, che potrebbero realizzare gli impianti”, spiega il manager. Ovviamente il Tap non serve solo a investire in Albania. “Il problema è che in Italia consumiamo ogni anno 75 miliardi di metri cubi di gas. Solo il 7 per cento lo produciamo nel nostro paese, l’altro 93 deve essere importato. Abbiamo contratti per 85-88 miliardi di metri cubi di gas, ma nel prossimo biennio contratti per 30 miliardi saranno in scadenza. Quindi rischiamo di restare sotto il nostro fabbisogno. In più dipendiamo troppo dalla Russia e dall’Algeria, e i giacimenti norvegesi si stanno esaurendo. E’ innanzitutto un problema di approvvigionamento. I 20 miliardi di metri cubi del Tap sono una garanzia per l’Italia e anche un’opportunità per l’Europa”.
E però il Tap è duramente contestato. Lei in precedenza aveva lavorato per Fs. Dai No Tav ai No Tap. Un destino ineluttabile? “Purtroppo spesso in Italia non si riesce a guardare al di là dell’infrastruttura che si sta realizzando, cioè a quello che può portare. Senza la linea ad alta velocità come faremmo ad andare tra Milano e Roma, e Napoli e Torino? Senza Tap tra qualche anno non sapremo come fare. Inoltre è conveniente per l’inquinamento. Il gas produce molta meno anidride carbonica, non emette polveri sottili, ed è la transizione giusta verso le energie alternative, come eolico e solare. Ma essendo intermittenti, queste ultime, hanno bisogno di un complemento”.
La parola Nimby non è italiana, ma inglese (Not In My Back Yard, non nel mio cortile), però in Italia il problema sembra più acuto che altrove. “Diciamo che in Italia c’è più sensibilità. E’ anche giusto: dobbiamo dialogare, convincere. Purtroppo a volte non troviamo riscontro nella controparte per un dialogo tranquillo e sereno. Ho proposto ai cittadini di Melendugno (l’approdo del Tap) e al sindaco di tenere un dibattito pubblico, in piazza. Non ci siamo riusciti. Forse in Italia c’è un po’ troppa voglia di godere di benefici immediati senza quei piccoli sacrifici necessari per ottenere maggiori benefici futuri”.