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Per i partiti non è più “tutta colpa dell'euro”. Ma non è una buona notizia

Daniel Gros*

Con l'avvicinarsi del 4 marzo il tema della moneta unica ha perso centralità nella campagna elettorale. Ma chiunque vincerà non potrà non occuparsi della riforma dell’Eurozona. E non si vedono proposte concrete   

Sembra che la tendenza dei partiti politici italiani a criticare l’Euro (e la stessa Unione europea) sia diminuita con l’avvicinarsi delle elezioni. Ma smettere di attaccare la moneta unica e le sue regole non è sufficiente: qualunque governo uscirà dalle urne il prossimo 4 marzo sarà chiamato a prendere posizioni più precise sulla riforma dell’Eurozona, riforma che Francia e Germania stanno già discutendo in maniera informale.

 

Quale dovrebbe essere l’interesse italiano in questo contesto?

La posizione ufficiale del governo italiano è stata solitamente quella secondo cui l’euro necessita di una rete di sicurezza più robusta e della prosecuzione delle politiche espansionistiche della Banca centrale europea. Ma perché l’Italia dovrebbe aver bisogno di tutto ciò? L’impressione è che il governo italiano percepisca se stesso come un debitore che potrebbe un giorno aver bisogno di aiuto dall’esterno. Questa immagine dell’Italia come Paese debitore per eccellenza non è corretta: l’Italia ha in questo momento un significativo avanzo delle partite correnti e, guardando indietro, le eccedenze e i disavanzi esterni sono stati più o meno della stessa portata. Ciò significa che, nel complesso, l’Italia non è un Paese debitore. La sua posizione patrimoniale netta con l’estero è grossomodo bilanciata e anzi migliora grazie alle eccedenze delle partite correnti. Non sussiste dunque il paragone con la Grecia, che ha avuto disavanzi esteri per venti anni, né con Spagna e Portogallo che, pur godendo ora di eccedenze delle partite correnti, hanno ancora un debito estero considerevole. La posizione estera dell’Italia è più forte anche di quella della Francia, che attualmente sta attraversando una fase di disavanzo delle partite correnti e ha una posizione patrimoniale netta estera negativa.

 

Le conseguenze della solidità italiana

In primo luogo, il Paese ha poco da temere da tassi di interesse elevati: il governo pagherebbe di più, ma i cittadini italiani otterrebbero guadagni maggiori dai loro risparmi. Mario Draghi potrebbe aver salvato l’euro nel 2012, ma l’Italia non ha più bisogno del suo sostegno.

In secondo luogo, l’Italia dovrebbe essere al riparo da attacchi speculativi, almeno finché gli italiani avranno fiducia nel loro governo. Poco importerebbe che speculatori a Londra o New York vendessero il debito italiano, se gli italiani risparmieranno più di quanto richiesto per finanziare il proprio governo. Ciò significa che l’Italia non ha bisogno di una rete di sicurezza più forte.

La forte posizione estera dell’Italia è anche la ragione definitiva per cui i premi di rischi sul debito italiano si sono mossi a malapena durante la recente insorgenza di volatilità finanziaria dei mercati. Ma questa permissività da parte dei mercati finanziari ha anche aspetti negativi: l’elevato debito pubblico italiano è oggi il risultato di una serie di governi che hanno preferito spendere e lasciare il conto da pagare a chi sarebbe venuto dopo. Molti governi hanno solo espresso a parole la necessità di ridurre il livello del debito, ma negli ultimi venticinque anni il mantra è sempre stato: “Ora non è il momento adatto per un bilancio in pareggio”.

 

Le istituzioni fiscali deboli che nessun partito vuole rafforzare

Un Paese con istituzioni fiscali deboli trarrebbe in realtà beneficio, sul lungo periodo, da regole più rigide per le politiche fiscali. Se Ulisse si è fatto legare all’albero della nave perché sapeva che non avrebbe resistito al canto delle sirene, anche per l’Italia sarebbe un bene se ai suoi governanti fosse impedito di indebitarsi di continuo. L’opposizione del governo e gran parte dell’opinione pubblica, contrari al Patto di Stabilità e alla regola di riduzione del debito prevista dal Fiscal compact, hanno pertanto poco a che fare con l’interesse del Paese nel lungo periodo.

L’Italia sta diventando un creditore, ma ha ancora un problema con le sue deboli istituzioni fiscali: non le serve una rete di salvataggio più grande, ma limitazioni più efficaci al deficit della spesa pubblica. Purtroppo, però, qualsiasi governo emergerà dalle prossime elezioni procederà probabilmente in direzione opposta.

 

*direttore del Centre for European Policy Studies (CEPS), Senior Fellow della LUISS School of European Political Economy e Member dell’Advisory Board del LUISS Center of Italian Mezzogiorno Studies

 

Questo saggio è pubblicato anche su LUISS Open, research magazine dell’Università LUISS

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