Il mito delle 28 ore
Lavorare meno, lavorare meglio: il modello tedesco crea invidie e discussioni. Ma quanto è esportabile?
Milano. “Posso uscire prima al venerdì per andare a yoga?”, ha chiesto un ragazzo durante un colloquio di lavoro al responsabile delle risorse umane di una banca d’investimento londinese. Fino a qualche tempo fa, il curriculum di questo candidato sarebbe stato stracciato in un attimo – ha raccontato Simon Kuper sul Financial Times – e anzi nessuno in cerca di lavoro si sarebbe mai sognato di chiedere esplicitamente flessibilità d’orario per poter seguire il corso di yoga o per qualsiasi altra attività che non sia una questione di vita o di morte, quindi imprevedibile, quindi non richiedibile (non sappiamo che fine ha fatto questo sfrontato ragazzo, se poi è stato assunto e se al venerdì può uscire prima per davvero). Ma oggi le cose sono cambiate, o stanno cambiando, almeno nei paesi in cui la disoccupazione è in calo e i salari in crescita. Lavorare-meno-lavorare-meglio è diventata un’esigenza sempre più sentita e ascoltata, al punto che anche paesi in cui la disciplina lavorativa è ferrea si stanno un po’ ammorbidendo: la Germania con le sue 28 ore lavorate a settimana ne è l’esempio più recente e più discusso. Dovremmo tutti fare così, dicono alcuni: finiremo tutti per fare così, predicono altri.
Bisogna intendersi: le 28 ore lavorate sono una scelta data ai lavoratori (per ora soltanto in alcuni settori e in alcune aziende) a fronte di un minore stipendio e per un periodo di tempo limitato (in Germania, massimo due anni). Non hanno molto a che vedere con le 35 ore che, giusto vent’anni fa, sono state introdotte in Francia: quella legge, controversa e combattuta, fu applicata in modo uniforme a tutti, con conseguenze sulla produttività che stanno scritte nei trend non proprio rassicuranti dell’evoluzione del mercato del lavoro francese.
Non è un caso che l’opzione di 28 ore lavorate a settimana si sia concretizzata nel settore più in crescita e in una delle regioni più in crescita di un paese stabile e quasi paradisiaco per la maggior parte dei lavoratori come la Germania: quando le occasioni di lavoro ci sono, inizi a rivalutare il tuo tempo libero, non accade mai l’inverso. Negli anni Sessanta, un tedesco in media lavorava 2.163 ore l’anno, ora ne lavora 1.363 – e quando esce dall’ufficio può non rispondere alle email, anzi di più: la Daimler cancella automaticamente le email dei dipendenti che sono in ferie. Lavorare di meno e meglio è un privilegio, insomma, cui i redditi più bassi non possono ambire (e in generale nemmeno gli americani, visto che l’assicurazione sanitaria è legata alle ore lavorate). Ed è un privilegio di cui ci si può approfittare quando le economie vanno meglio, e per periodi non troppo lunghi di tempo. E’ il lato virtuoso della flessibilità, come dicono i sindacati tedeschi che sono riusciti a ottenere l’opzione delle 28 ore: la richiesta di una vita più equilibrata diventa plausibile, anche per ragioni familiari, non soltanto per fare yoga.
Molti sostengono – come lo stesso Simon Kuper, che dice che la settimana di 30 ore “è ormai qui” – che questo sia lo schema che si imporrà in futuro, perché la richiesta di un maggior equilibrio è preponderante tra i millennial: una ricerca di Deloitte dello scorso anno dice che più che la carriera, per i giovani è più importante avere tempo per far qualcosa che non sia lavorare. Ma come si è visto, le condizioni per concedere ai lavoratori una scelta di questo genere – flessibilità, per un periodo circoscritto con un ridimensionamento salariale: un lusso – sono molto precise e difficilmente replicabili. In Germania, i salari crescono a un ritmo sette volte superiore rispetto all’Italia, e così la produttività, al punto che molti datori di lavoro tedeschi – per questo ci sono stati gli scioperi – sono disposti a concedere di più in termini di salario per non perdere ore lavorate. Tra dieci o quindici anni ci pensiamo, hanno detto alcuni industriali francesi, con l’intima speranza, intanto, di aumentare anche le loro 35 ore.