Perché viste dai mercati e dal grande fondo Pimco le elezioni italiane non fanno affatto paura
Spread in calo e report di banche d’affari internazionali e analisti tranquilli. Parla Eve Tournier: "Lo scenario che ci preoccupa di più è un’alleanza euroscettica"
Roma. Il termometro finanziario considerato più accurato, o comunque il più comunemente usato, ovvero lo spread Btp-Bund, non segnala preoccupazione in vista delle elezioni politiche: ieri in calo a 130 punti base. La situazione sui mercati è quieta come l’atmosfera che si respira in un bosco innevato. I report di banche d’affari internazionali, come Nomura, o di società di gestione del risparmio per clienti affluenti, come la svizzera Pictet, fino agli acuti analisti dell’Economist intelligence unit, non si scompongono più di tanto considerando che le elezioni politiche non daranno un chiaro vincitore.
Il Foglio ha chiesto un parere sulla condizione attuale italiana ed europea e sulle prospettive elettorali a Eve Tournier, managing director del Pacific Investment Management Co. Tournier. E’ responsabile della gestione di portafogli obbligazionari paneuropei per il fondo di investimento più grande del mondo, noto con l’acronimo Pimco, americano (ma controllato dall’assicurazione tedesca Allianz), con masse complessive in gestione da 1.750 miliardi di dollari. A novembre Pimco diceva che l’ottimismo nei confronti della ripresa europea era parzialmente giustificato ma che andava considerato con cautela per via di una serie di ostacoli nel lungo termine. “L’economia europea si riprende. Se guardiamo all’indice Pmi (sull’attività manifatturiera, ndr) vediamo una relativa crescita, almeno in base agli standard europei precedenti. E la crescita è più sincronica nell’area: non ci sono più grandi divergenze tra i paesi. Non c’è più quella divergenza di prima, tra chi ha fatto bene e chi ha fatto male: tutti i paesi ora remano nella stesa direzione. Il che è molto positivo. Non penso sia corretto dire che non ci sono stati aggiustamenti, ce ne sono stati molti e significativi. Basta guardare il costo del lavoro per ciascun paese contro quello tedesco. Se vediamo quando eravamo nel mezzo della crisi del debito sovrano, c’era una grande divergenza. Oggi c’è più convergenza verso la Germania. Significa che molti paesi hanno fatto aggiustamenti importanti. Ora la preoccupazione che abbiamo nel lungo periodo è che le istituzioni europee non riescano a finalizzare concretamente le riforme comunitarie: ancora non c’è un bilancio comune, per dire. Ci sono stati alcuni miglioramenti ma nel complesso, e a piccoli passi, ci sono stati alcuni progressi. C’è un regolatore bancario comune nella prospettiva di una Unione bancaria. E’ incompleta ma si va avanti a una ‘velocità europea’. L’Europa è comunque sopravvissuta a una crisi profonda e ne è uscita più forte. Personalmente sono ottimista, come società siamo ancora dubbiosi su come l’Europa affronterà la prossima crisi”. Il rischio di un rallentamento, nella costruzione dell’Unione bancaria in particolare, è una preoccupazione comune non solo tra gli addetti ai lavori. Per esempio, in questi giorni il sito Politico.eu ha rilanciato un appello firmato da economisti, politici e banchieri – tra cui Lorenzo Bini Smaghi, presidente di Société Générale, l’ex commissario europeo, Laszlo Andor, l’ex primo ministro greco, George Papaconstantinou, e Shahin Vallée, economista del Soros Fund di George Soros ed ex consigliere di Emmanuel Macron – invocando una riforma rapida nella governance europea. Accelerare vuol dire proprio proteggersi da quello che molti temono, la “prossima crisi”. Ma perché, chiediamo a Turnier, tutti parlano di “prossima crisi” come se fosse scontata? Risponde con un sorriso: “Alle persone piace preoccuparsi per l’Europa… e piace preoccuparsi dell’ultima crisi…”.
L’economia europea va meglio, da ormai diversi trimestri, e a questo punto è la condizione politica a essere a rischio staticità dopo il revival post Macron. Guardando ora alle elezioni italiane è molto probabile che in termini di salvaguardia della stabilità e governabilità dalle urne esca un risultato peggiore rispetto alla situazione odierna. Ai commentatori – come lei dice – piace ricordare l’ultima crisi. Che nello specifico per l’Italia, in termini di aumento del rischio politico, sarebbe quella famosa dello “spread” del 2011 che portò alla conclusione del governo Berlusconi e all’arrivo del governo tecnico di Monti. Qual è la sua visione sulle elezioni? “Parlo dal punto di vista di un investitore – premette Tournier – e dico che la maggior parte degli scenari che vediamo – che sia una vittoria del centrodestra, una coalizione larga o limitata, o un Parlamento bloccato con elezioni da rifare – per gli standard italiani sono più o meno la stessa cosa: siamo abituati a un’Italia che cambia costantemente capi di governo negli anni e quindi tutti questi scenari sono tutto sommato simili. Lo scenario che ci preoccupa di più – aggiunge la manager di Pimco – è un’alleanza euroscettica tra la Lega e il Movimento 5 stelle che però secondo molti osservatori è molto improbabile perché questi partiti hanno visioni divergenti su altri temi. Quindi anche noi attribuiamo una bassa probabilità a quel risultato che sarebbe il più grave. Perciò non siamo così preoccupati. Ci potrà essere un po’ di volatilità sui mercati dopo il voto ma non ci sono timori per i titoli di stato. I Btp hanno fatto molto bene dall’inizio dell’anno: il rendimento è molto stabile attorno al 2 per cento. Lo spread con i titoli tedeschi si è assottigliato. E il mercato ha già in parte prezzato una volatilità post elettorale. Nel caso peggiore, che dicevo prima, vedremmo uno spread molto più alto. Ma anche in quello scenario quei partiti hanno abbandonato la retorica dell’uscita dall’euro e non sarà una preoccupazione per la Banca centrale europea”. Secondo un’analisi di Bloomberg di questi giorni, realizzata collezionando i pareri degli analisti, la probabilità di un’alleanza tra partiti euroscettici è infatti bassa – in media è data al 10 per cento – ma se dovesse materializzarsi, lo spread tra Btp e Bund raddoppierebbe a 260 punti; comunque la metà dei 500 punti base dell’estate 2011.
A livello mondiale una fonte di preoccupazione generale, nelle settimane scorse, è stata un picco di volatilità a Wall Street. Allora, come spesso accade, le solite “cassandre” prevedevano sconquassi imminenti che, puntualmente, non si sono verificati. L’aumento della volatilità, e una manciata di sedute chiuse al ribasso, sono state spiegate in modi diversi in quei giorni, complice il concomitante cambio al vertice della Federal Reserve, con l’arrivo di Jerome Powell al posto di Janet Yellen. Ma non c’è stata una sostanziale convergenza nella spiegazione dei fatti. Qual è il motivo secondo lei? “L’evento inusuale importante è stata la riforma fiscale in America avvenuta abbastanza tardi nel ciclo in un momento in cui l’economia sta facendo bene e senza che ci sia molta ‘spare capacity’, capacità residua, nel mercato del lavoro. E’ inusuale una spinta fiscale in un momento simile. Quindi c’è un punto di domanda su quali siano le conseguenze inattese di questa decisione. E’ una politica pro-crescita, quindi è positivo, ma dovrebbe essere un po’ inflazionistica perché il mercato del lavoro è saturo. Pimco ha rivisto il target di inflazione dal 2 per cento al 2,2 per cento alla fine dell’anno, un po’ più alto ma non segnala surriscaldamento. L’altra conseguenza è che aumenterà il deficit americano per compensare il minor gettito. Questo vuol dire che il Tesoro dovrà emettere più debito mentre la Fed sta assottigliando il bilancio. Quindi una quantità maggiore di Treasury dovranno essere comprati da investitori privati. Questo aumenterà gradualmente la volatilità del mercato e la curva dei rendimenti americani diventerà più ripida”. Che la riforma fiscale trumpiana avrà effetti sula politica della Fed l’ha chiarito ieri lo stesso presidente Powell al Senato dicendo che la riforma “metterà pressione sulla domanda, che a sua volta la metterà sull’inflazione”. Secondo Tournier dalla stretta della Fed – che secondo gli analisti che leggono il labiale di Powell potrebbe avvenire a un ritmo più rapido delle attese (quattro rialzi anziché tre nel 2018) – avremo “un impatto anche per Europa e Giappone”. Secondo la manager del fondo obbligazionario più grande del mondo “gli investitori si muoveranno verso gli Stati Uniti attratti da rendimenti più alti, che le politiche accomodanti di Banca centrale europea e Bank of Japan al momento non raggiungono. La prima alzerà gradualmente i tassi in un periodo lungo di tempo. La seconda ha i tassi a zero da un decennio. Ci sarà concorrenza tra Stati Uniti vs Europa e Giappone da questo punto di vista sul mercato dei titoli sovrani”. A proposito di Bce: in Italia alcuni osservatori sono preoccupati per la successione di Mario Draghi soprattutto perché temono l’arrivo di un “falco” come Jens Weidmann della Bundesbank. Un problema? “Ogni Banca centrale ha una potenziale inclinazione da ‘falco’ o ‘colomba’ ma alla fine è un’istituzione con un mandato e che non è gestita da una persona sola. E’ un comitato, ha un processo decisionale, con l’obiettivo di ottenere il migliore risultato possibile. Non penso che faccia una grande differenza ed è da vedere se la Germania vorrà davvero mettersi alla testa della Bce”. I campanelli d’allarme possono smettere di suonare.