La catarsi delle delocalizzazioni per rigenerare la "foresta" industriale
Lezioni dal caso Embraco. I trasferimenti d'impresa sono dolorosi ma aiutano a sfoltire le tante imprese zombi che abbiamo
L’esplosione del caso Embraco, a poche settimane dalle elezioni, ha segnato le ultime settimane di campagna elettorale: tutte le forze politiche hanno denunciato i presunti guasti dell’integrazione europea e proposto modi per impedire le delocalizzazioni. Il dibattito è andato ben al di là del caso specifico, e va pertanto affrontato nella sua generalità. Siamo sicuri che le delocalizzazioni siano sempre e comunque un male da esorcizzare? Pochi hanno colto il nesso tra la difesa a oltranza dell’occupazione nelle imprese moribonde e la crisi di produttività che spiega la nostra bassa crescita negli ultimi decenni.
La competitività di un paese dipende dall’abilità delle imprese – quale che sia la loro nazionalità – di impiegare i fattori della produzione nelle specializzazioni nelle quali hanno dei vantaggi comparati. Le aziende che fanno profitti generalmente hanno successo in questo sforzo; quelle che galleggiano o accumulano perdite stanno facendo un cattivo utilizzo di capitale e lavoro. Il fallimento di un’impresa (o lo spostamento di una produzione in un altro paese) è il modo attraverso cui il mercato favorisce la riallocazione dei fattori. Naturalmente non si tratta di un processo indolore, perché nel frattempo i lavoratori si trovano disoccupati e non necessariamente possiedono le competenze che li faciliterebbero nella ricerca di un nuovo impiego. Storicamente, attraverso strumenti come la cassa integrazione, l’Italia ha cercato di prevenire tale problema: con l’obiettivo, o forse l’illusione, che la difesa dello status quo avrebbe consentito di superare la nottata. Solo negli ultimi anni l’approccio ha iniziato a cambiare: le politiche attive del lavoro, uno dei pilastri del Jobs Act, spostano la protezione dal posto di lavoro al lavoratore.
Il passaggio da un welfare vecchio stile a uno moderno – invocato anche ieri da Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sul Corriere della sera – non avverrà mai troppo presto né sarà mai abbastanza radicale. E’ proprio la logica della resistenza al cambiamento, infatti, che spiega perché la nostra produttività non cresce. Una recente indagine dell’Ocse ha mostrato che, nel 2013, la percentuale di imprese “zombie” in Italia era pari al 6 per cento del totale, col 19 per cento dello stock di capitale investito e il 10 per cento dell’occupazione. Si tratta di un dato enorme, che non a caso pone il nostro paese in vetta a questa particolare classifica. Se queste risorse non vengono in qualche modo liberate e dedicate a usi più produttivi, la nostra economia continuerà a trascinarsi dietro una zavorra che la rallenterà durante i periodi di crescita, e la appesantirà in quelli di recessione.
Le implicazioni possono essere meglio comprese grazie a un’immagine talvolta utilizzata dagli economisti. Proviamo a pensare all’economia come una foresta nella quale ogni albero rappresenta la produzione di un bene; le imprese sono delle scimmie che saltano da un albero all’altro. La morfologia della foresta cambia nel tempo, per effetto del progresso tecnologico: spuntano nuovi alberi ed essa tende ad addensarsi nelle aree a maggior valore aggiunto e a rarefarsi nelle altre. Nei paesi più dinamici, le imprese tendono a collocarsi nelle zone più dense, dove è più facile saltare e mantenersi competitivi. Questa rappresentazione aiuta a capire che una politica pro-crescita deve far muovere le scimmie, non farle stare ferme. Se un paese frena le sue trasformazioni strutturali, prima o poi finirà spiazzato. Attraverso fallimenti e delocalizzazioni, il mercato spinge le nostre scimmie ad affrettarsi verso il centro della foresta. Ogni tentativo di impedirlo ci emargina nella periferia. La difesa a oltranza dei posti di lavoro nelle specializzazioni meno produttive può essere attraente nell’immediato, ma rappresenta una condanna del paese, e dei lavoratori stessi, nel lungo termine.
Carlo Stagnaro