Perché allo stallo politico non deve corrispondere l'ozio riformatore
Con le promesse in empatia con un elettorato trasversale si possono vincere le elezioni ma anche morire di consunzione
Anche chi scrive non crede affatto, come Ferrara, che “l’Italia produttiva e improduttiva gema, da Bergamo a Siracusa, sotto il tallone di ferro di un’eurocrazia e di un’euromoneta e di un liberoscambismo obsoleti”. Vi sono stati certamente sbagli nell’analisi e nell’azione politica, che hanno portato il Pd di governo a perdere voti. E le politiche economiche, come ha scritto Cerasa, non sono state sufficienti per cui è importante chiedersi perché in alcuni casi non abbiano funzionato o perché in altri non abbiano dato risposte adeguate.
Ma la rappresentazione di un’Italia allo sfascio, su cui hanno fatto leva le forze politiche uscite vincenti dalle elezioni, è profondamente sbagliata. Non soltanto riguardo al nord-centro ma anche con riferimento al Mezzogiorno. Dopo una crisi durissima, che avrebbe potuto mettere in ginocchio perfino un gigante come la Germania, l’economia italiana è in netta ripresa. Lo è soprattutto il nord Italia, dove, secondo le ultime stime di Prometeia, nel 2017 i pil di Lombardia ed Emilia-Romagna sono cresciuti dell’1,8 per cento e quelli di Veneto e Piemonte dell’1,7 per cento. In queste regioni le politiche economiche per la ripresa hanno discretamente funzionato, sia dal lato dei consumi e degli investimenti sia dal lato del lavoro e dell’occupazione. Tant’è che, dopo l’abisso toccato tra il 2009 e il 2013, i pil di Lombardia ed Emilia-Romagna torneranno nel 2018 sopra i livelli precrisi e al Veneto mancherà pochissimo per riuscirci. Adesso anche chi descriveva un’Italia deindustrializzata, marginalizzata dalla globalizzazione e prostrata dalla crisi scopre con sorpresa il triangolo “cinese” Milano-Treviso-Bologna, dove le imprese non riescono nemmeno più a star dietro agli ordini.
Secondo l’analisi prevalente del voto la disfatta elettorale del Pd origina da una perdita/mancanza di empatia con l’elettorato giovanile e del Mezzogiorno, ma anche con quello del nord produttivo. Empatia che altre forze hanno invece saputo interpretare. Effettivamente, tanto nel nord ovest quanto nel nord est è possibile trovare in piazza o al bar tanti piccoli e medi imprenditori che non vi sapranno rispondere se li interrogherete a proposito di quanto hanno risparmiato dopo l’eliminazione della componente lavoro dell’Irap e della tassa sugli imbullonati o assumendo personale con le decontribuzioni o investendo in nuovi macchinari e tecnologie con i super e iper-ammortamento. Probabilmente non hanno neanche fatto lo sforzo di chiederlo ai loro commercialisti. Per questi imprenditori le tasse restano troppo alte, punto e basta, allo stesso modo in cui l’immigrazione è un flagello. Le loro convinzioni sono granitiche: è un fatto quasi ideologico. Con questa fascia di elettorato il Pd di governo non è mai riuscito a costruire un feeling. Inoltre, molti piccoli imprenditori del nord, a distanza di oltre tre lustri dall’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio e a oltre dieci anni dalla applicazione temporanea (utilissima allora) dei dazi anti dumping sulle calzature cinesi, danno ancora oggi la colpa ai vari governi di turno e all’Europa se i loro affari vanno male, piuttosto che interrogarsi sulla validità del proprio modello di business o chiedersi come abbiano potuto votare e rinnovare per anni supinamente i vertici della Banca Popolare Vicenza o di Veneto Banca che hanno bruciato i loro risparmi. C’è qui una evidente contraddizione anche nel mondo imprenditoriale, perché tanti altri loro colleghi del nord stanno invece producendo ed esportando a raffica, avendo puntato intelligentemente su qualità e innovazione.
Ma è soprattutto nel Mezzogiorno che l’empatia della politica tradizionale è venuta meno. Però anche da Roma in giù non è affatto vero che tutto è allo sfascio. E non solo perché da anni uno studioso sul campo come Federico Pirro continua a spiegarci minuziosamente, con numeri e casi aziendali alla mano, che il sud non è solo deserto industriale e disoccupazione. Ma anche perché lo stesso Mezzogiorno si è ripreso significativamente dopo la lunga e tremenda crisi del 2009-2013. Si prenda, ad esempio, il caso della Campania, di cui abbiamo già parlato in un articolo lo scorso gennaio. Partendo dai dati ufficiali Istat del 2016 e se diamo per buone le stime di Prometeia per il 2017, nell’ultimo biennio il pil della Campania è aumentato cumulativamente del 4,6 per cento, cioè più di quello della Germania. Mentre gli occupati tra il terzo trimestre 2013 e il terzo trimestre 2017 sono aumentati in Campania del 7,9 per cento (contro un incremento medio del 4,4 per cento per l’Italia). Ciò per merito di una imprenditoria locale diffusa, nella manifattura, nella portualità, nel commercio e nel turismo che ha beneficiato largamente della politica economica del governo centrale.
Il Mezzogiorno si è sentito abbandonato, dicono i politologi e gli analisti del voto. Tuttavia, la verità è che gli stimoli all’economia e al lavoro hanno funzionato anche al sud ma solo dove il tessuto produttivo meridionale era ancora pulsante e in grado di reagire. Ciò è avvenuto in minor misura in Sicilia e Sardegna dove per la prima volta la spesa pubblica, per i sempre più stringenti vincoli di bilancio, non ha più potuto operare come potente ammortizzatore sociale in terre con una minore densità imprenditoriale rispetto a Campania o Puglia. Ed è davvero difficile pensare che il reddito di cittadinanza, ammesso che si riesca a finanziarlo, possa risolvere problemi strutturali di aree che invece necessitano di riforme modernizzatrici per evitare di implodere. Al sud servono quei centri per l’impiego efficienti che il Pd di governo non è riuscito a far decollare e non redditi elargiti a pioggia a chiunque non lavori. Ciò è vero per le Isole ma anche per altre aree del Mezzogiorno, a cominciare dalla Puglia, che ha bisogno sia dell’Ilva sia del Tap e molto meno di promesse di un nuovo assistenzialismo incompatibile con lo stato delle finanze pubbliche.
Non si cresce soltanto con l’empatia, specie se ottenuta a buon mercato con promesse elettorali pressoché irrealizzabili o semplicemente cavalcando lo scontento. Di riforme modernizzatrici abbisognano tanto il nord-centro che il Mezzogiorno d’Italia. Per quanta pazienza possa avere la Banca centrale europea di Mario Draghi – che rimarrà appunto “paziente, tenace e prudente” – il piano di stimoli monetari è comunque destinato a scemare con il tempo, al più tardi alla fine del 2019. L’Italia dunque non ha molto tempo da perdere per affrontare i suoi problemi e ritardi strutturali.
Fare riforme modernizzatrici – nella Pubblica amministrazione, nelle infrastrutture, nella scuola e nella formazione, nel lavoro, nei servizi sociali– non è facile, specie se si deve convivere con insuperabili vincoli di bilancio. Serve equilibrio tra ripresa e un rigore temperato dalla flessibilità. Ma, per quanto difficile, riformare modernizzando è l’unico modo per ritrovare la via della crescita e ridurre i limiti strutturali che affliggono alcuni settori e aree del nostro paese. Di sicuro il nord-centro non può sempre piangere anche quando le cose vanno bene, quando i consumi delle famiglie sono già sopra i livelli precrisi e gli investimenti in macchinari e tecnologie stanno crescendo il doppio che in Germania. E nello stesso tempo il nord non può guardare il sud egoisticamente con freddo distacco o come se esso fosse ormai un territorio da abbandonare al suo destino. Il nord Italia ha un valore aggiunto manifatturiero più alto dell’intera Spagna, del Baden-Wurttemberg o della Baviera. Non è una porzione di mondo allo sfascio. A sua volta il Mezzogiorno non può piangere sempre sui propri ritardi ed essere condannato a vita a sperare soltanto di essere supportato da nuove rendite politiche. Anche il sud ha manifattura, agricoltura, turismo. Ed è da lì che deve ripartire se non vuole che tra dieci anni la sua distanza dall’Europa e dal nord Italia sia ancora più grande.