La tassa su Facebook & Co. chi la paga?
La proposta di web tax europea è comprensibile ma il modo è sbagliato
La web tax proposta dalla Commissione europea risponde a una domanda giusta (far pagare tasse eque a chi fa enormi profitti e versa quasi zero) ma in modo sbagliato (tassare in base al fatturato e non ai guadagni). Non è la prima volta che simili compromessi prevalgono a Bruxelles, stretta tra paesi cresciuti grazie al dumping fiscale come Irlanda, Olanda, Cipro, Malta e Lussemburgo ed economie manifatturiere come Germania, Italia, Francia e Spagna. Basta non paludare l’escamotage da atti di giustizia per il “Facebookgate”, come invece suggerisce il commissario agli Affari economici Pierre Moscovici. Con buona pace dell’ottimo ministro Carlo Calenda che (assieme all’ex senatore Pd Massimo Mucchetti) la difende sul Corriere della Sera, un’imposizione simile non appare una svolta di civiltà: è probabile che gli over the top della rete, Amazon, Alphabet, la stessa Facebook, finiranno per scaricare l’imposizione sulla parte più debole della catena, i clienti. Come già avviene per tutte le imposte indirette sul fatturato, dall’Iva alle accise. E da noi, l’Irap. I 5 miliardi che l’Ue si propone di far pagare ai cattivi della West Coast per rimpolpare il bilancio orfano della Brexit, finiremmo per sborsarli noi e le aziende che sulla rete investono per rinnovarsi. Le leggi attuali prevedono che per pagare le tasse in un paese si debbano avere lì presenze fisiche rilevanti, il che non è possibile con gli apolidi digitali. Basterebbe però contare gli utenti e gli inserzionisti pubblicitari, anziché i dipendenti e i fabbricati per aggiornare il criterio della “stabile organizzazione”. E poi ci si dovrebbe chiedere come mai Irlanda, Olanda e Lussemburgo riescano a risultare fiscalmente appetibili senza rinunciare a evoluti sistemi di welfare. Magari riducendo le spese inutili?