La City di Londra. La Globalization World Cities Research Network, con base nel dipartimento di Geografia dell’Università di Loughborough in Inghilterra, nel 2016 ha stilato la classifica delle global

Il mondo nuovo e le sue città

Stefano Cingolani

Guidano l’innovazione, offrono la migliore connessione alle reti informatiche (e umane) e lì si concentra il capitale finanziario. Metropoli globali, come New York e Londra. L’Italia, tranne Milano, è indietro

Con il brutale gusto del paradosso che lo caratterizza, Boris Johnson quattro anni fa proclamò che Londra, della quale si gloriava essere il primo cittadino, era diventata per i miliardari come la giungla di Sumatra per gli orangutan: il loro habitat naturale. La metafora non può che fare orrore a Saskia Sassen, la sociologa americana che per prima nell’ormai lontano 1994 coniò la fortunata definizione di città globale. Oggi insegna alla Columbia University di New York, dopo aver esordito a Chicago, e ispira una buona parte della cultura radicale critica della globalizzazione se non proprio no global. Tuttavia, tolto l’eskimo e indossata la veste della studiosa, anche lei non può che essere d’accordo. La global city, che ha concettualizzato un quarto di secolo fa, ha preso ormai forma, attrae non solo i ricchi, ma chiunque voglia uscire dal piccolo mondo antico, apre la porta sulla scala mobile della società e genera nello stesso tempo frustrati ed esclusi; insomma è una realtà amata e odiata nello stesso tempo, della quale non si può fare a meno. Il processo è andato avanti a strappi, influenzato dai cicli economici, tuttavia non ha mai invertito la marcia.

 

La global city attrae non solo i ricchi, apre la porta sulla scala mobile della società e genera nello stesso tempo frustrati ed esclusi

La crisi finanziaria del 2008-2009 sembrava aver inferto un colpo durissimo, facendo crollare i valori immobiliari, per esempio, o interrompendo il flusso di moneta calda che alimentava il mercato delle case. Ma non è stato così. Anzi, è successo esattamente il contrario. Secondo il Financial Times è stata proprio la crisi ad aver realizzato in modo compiuto il progetto della città globale. Esagerazioni giornalistiche? Un titolo è un titolo e serve ad attirare l’attenzione, l’articolo lungo due pagine nell’inserto House&Home è ben più sfumato e non trascura di mettere in rilievo gli elementi negativi e i rischi di arretramento, persino il pericolo che si sia formata una nuova grande bolla alimentata dalla liquidità a basso costo che potrebbe scoppiare quando le banche centrali cambiano spalla al fucile, come ha già annunciato Jerome Powell nel suo esordio al timone della Federal Reserve. Il pezzo, tuttavia, ignora Milano, mentre molte analisi collocano il capoluogo lombardo tra le città Alpha, come vedremo. Ma, fatte le dovute bucce, bisogna concludere che l’autore, Nathan Brooker, coglie nel segno.

 

La Globalization World Cities Research Network, un organismo internazionale formato da un gruppo di esperti impegnato nell’analisi e nella soluzione di problemi complessi, specie in campo politico ed economico, con base nel dipartimento di Geografia dell’Università di Loughborough in Inghilterra, nel 2016 ha rilasciato la classifica mondiale delle Global cities. La GaWC divide le città in diversi livelli: Alpha (con due variabili premianti Alpha++ e Alpha+ e una minore Alpha), Beta (con una variabile premiante Beta+ e una minore Beta ) e Gamma (con una variabile premiante Gamma+ e una minore Gamma).

 

Le più importanti restano New York e Londra, classificate Alpha++, seguite da Singapore, Parigi, Pechino, Tokio, Shanghai e Dubai con Alpha+. Milano viene confermata come città globale di tipo Alpha, terza in Europa e dodicesima a livello mondiale, seguita da Sydney, Chicago, Francoforte, Madrid, Toronto e Los Angeles. Roma, in questa classifica, ottiene un misero Beta+. Nel suo gruppo troviamo esempi non certo brillanti quanto a funzionalità, efficienza, accoglienza, come Atene, Bangalore, Bucarest, Il Cairo, Lima e Caracas. L’indice elaborato dalla società di consulenza manageriale A.T. Kerney, che si basa più sui dati squisitamente economico-finanziari, penalizza Milano collocandola al 42esimo posto nella media degli anni 2012-2016. Tutte le altre città italiane stanno molto più giù. Tra i criteri usati c’è anche la taglia e Milano è piccola a confronto con le gigantesche conurbazioni mondiali, ma lasciamo ai milanesi di far ricorso se vogliono. Resta il fatto che l’Italia nel suo insieme resta indietro in quello che potrebbe essere anche definito un indice di modernizzazione sociale e urbana.

 

La globalizzazione e le sirene del protezionismo. Il riformismo è in ritirata, non la città globale: la fuga nel paesello è illusione

Che cos’è una città globale? Per capirlo ricordiamo alcuni parametri fondamentali ai quali ricorrono gli esperti. Sono quelle che guidano l’innovazione, dice la Kerney nel suo ultimo rapporto e offrono la migliore connessione alle reti informatiche. E sono quelle in cui si concentra il capitale finanziario che domina più che mai l’intero processo di produzione e distribuzione della ricchezza. Un certo luogo comune vuole che oggi, grazie a internet, si possa lavorare ovunque e giocare in Borsa comodamente sdraiati sul divano di casa; è vero, ma nello stesso tempo c’è bisogno di operare all’interno di una rete umana non solo cibernetica. I grandi affari si concludono con una stretta di mano davanti a un buon bicchiere; la élite globale ha bisogno di ritrovarsi, perché la risorsa chiave è la fiducia e questa si costruisce anche con la chimica personale. I grattacieli di vetro e metallo sono insostituibili così come lo è il ristorante discreto, con luci basse e boiserie. Il nuovo si veste d’antico e ne prende il gusto di vino gran riserva. Dunque, le città globali hanno bisogno di servizi, di trasporti efficienti, di alloggi adeguati, di aeroporti vicini, ma anche di teatri, di arene, di stadi. Panem et circenses. Così, Londra è da decenni un continuo cantiere e anche la Parigi rimasta immutata all’interno degli arrondissement con i tetti d’ardesia e le facciate bianche, come aveva prescritto il re Sole, gode del suo semprevivo matrimonio tra storia e modernità.

 

Tutto questo concentrarsi fa balzare i prezzi, quelli delle case, quelli dei servizi, ma anche gli altri che si allineano ai redditi, nelle città globali in media più alti che in qualsiasi altra parte del paese. La media è sempre sottoposta al paradosso di Trilussa, ma per molto tempo il più povero londinese ha sempre vissuto meglio del suo pari grado a Liverpool. La crisi ha introdotto nuove fratture. I valori sono impazziti, crollati in media del 30 per cento dal 2008 al 2009, subito dopo il fallimento della Lehman Brothers, hanno cominciato una corsa forsennata negli ultimi sette-otto anni. Per capire la svolta bisogna andare non nelle agenzie immobiliari, ma a Washington, nella massiccia sede della Federal Reserve, e a Francoforte nel nuovo grattacielo della Banca centrale europea. Quando la Fed ha cominciato a stampare moneta a più non posso e a comprare titoli sul mercato, seguita dopo due anni anche dalla Bce, la moneta calda è tornata a irrorare le strade delle global city. Tony Key, docente alla Cass Business School, ha spiegato al Financial Times che il fenomeno ha avuto due ondate diverse. La prima, in coincidenza con il crac finanziario, ha visto spostare i quattrini dai mercati in via di sviluppo verso il mattone, ben presto però il rifugio si è rivelato tutt’altro che sicuro e i valori immobiliari sono precipitati. A quel punto, la discesa dei tassi d’interesse verso lo zero o in territorio negativo ha reso di nuovo appetibile prendere i soldi in prestito e accendere mutui. Così è partito il secondo boom, quello che stiamo ancora attraversando e che rischia di preparare un nuovo drammatico sboom.

 

Le città globali calamitano anche una dimensione geopolitica. Londra, da tempo meta preferita degli sceicchi, è stata invasa dagli oligarchi russi. A Parigi si sono riversati i fuggiaschi spaventati dalla Fratellanza musulmana che ha guidato le cosiddette primavere arabe. L’uscita del Regno Unito dalla Ue alimenta affari e speranze al di là della Manica: a Parigi, ad Amsterdam, in misura minore a Francoforte. Si spostano banche, istituzioni pubbliche, agenzie come quella alimentare, la Ema sfuggita a Milano per una serie di errori e omissioni. La nuova ricchezza cinese non ha fatto solo rifiorire Shanghai, Hong Kong e Singapore, ma ha attraversato l’oceano alla volta di Sydney, senza dimenticare New York dove i cinesi sono stati i maggiori acquirenti di case, uffici, residenze lussuose soprattutto negli ultimi anni. La libertà di spostamento degli uomini fa da pendant al movimento delle cose nel mondo globale. Anche per questo i no global proclamano il loro no all’immigrazione.

 

Una classifica inglese. Milano viene confermata come città globale di tipo Alpha, terza in Europa e dodicesima a livello mondiale

Milano non è stata estranea a questi processi, anche se è arrivata dopo e certamente si muove su una scala inferiore rispetto alle sue maggiori concorrenti. Sono signori del Golfo Persico ad aver acquistato l’area di Porta Nuova, la piccola city meneghina. Mentre l’antica Chinatown ha lasciato il posto ai nuovi dragoni rossi, non tutti esattamente specchiati uomini d’affari, come dimostra Mr. Li che ha comprato il Milan senza, a quanto pare, avere un quattrino. Quanto a Roma e Napoli, le due più popolose aree metropolitane che potrebbero ambire, se non altro per la loro storia, a diventare città globali, tendono ad assomigliare sempre più alle vaste conurbazioni dei paesi in via di sviluppo, con i loro servizi inefficienti se non addirittura fatiscenti. Non che l’Italia sia rimasta fuori dalla rivalutazione dei valori immobiliari. L’Istat dice che lo stock di abitazioni è cresciuto in valore del 76 per cento dal 2001 al 2016, ciò smentisce sia l’idea che l’euro abbia impoverito il paese sia la lettura pauperistica della lunga crisi. Esiste una ricchezza immobiliare pari a ottomila miliardi di euro e 4 mila 632 riguardano abitazioni possedute dalle famiglie. C’è stato un calo del loro valore (8 per cento per le case) come ricaduta dello choc avvenuto tra l’autunno 2011, quando cadde il governo Berlusconi, e l’estate 2012, quando Mario Draghi salvò l’euro, e in particolare l’Italia, con la sua celeberrima frase “whatever it takes”. Tuttavia resta un nettissimo saldo positivo, del quale si sono avvantaggiate le famiglie, le aziende e anche lo stato. Sappiamo che di questi tempi i fatti non contano e l’evidenza viene bellamente negata con l’obiettivo esplicito di manipolare l’opinione pubblica ai propri fini e interessi di parte. Ma finché non verrà chiuso anche l’Istituto di statistica, i dati sono lì, chiari ed evidenti, per chiunque li voglia leggere.

 

Si può parlare di identità politica per la città globale? Se ci riferiamo a partiti e amministrazioni locali, ebbene troviamo una gran varietà, un vero e proprio arcobaleno. Ma se prendiamo alcune variabili che definiscono la cultura politica e i valori, piuttosto che l’appartenenza partitica, allora la risposta è sì. Milano ha sempre votato per i riformisti ora a sinistra ora a destra, Londra è contro la Brexit, Parigi è iper-macronista, New York liberal, San Francisco radical. Negli Stati Uniti Donald Trump ha avuto successo soprattutto nel Midwest, nella rust belt, la cintura delle vecchie industrie manifatturiere che dalla Virginia si spinge in Ohio e in Michigan, là dove le città si spalmano su un territorio vastissimo, stese come marmellata su una fetta di pane, tutte casette a schiera e centri commerciali. Il loro skyline, la loro immagine architettonica, è orizzontale, quanto di più lontano possa esistere dalla verticalità di Manhattan o della City londinese. In fondo ciò vale, sia pur con tutte le (enormi) differenze storiche, per il borgo dell’Italia centrale e il bosco verticale di Milano.

 

I grattacieli di vetro e metallo sono insostituibili così come lo è il ristorante discreto, con luci basse e boiserie. Il nuovo si veste d’antico

Così come plasmano la loro immagine, le città globali formano dunque un orientamento culturale che diventa politico, un vero e proprio comun sentire. Oggi sono circondate da quelli che la Sassen nel suo ultimo libro chiama “gli espulsi”; le campagne assediano le città come nel pensierino di Mao Tsedong che sintetizzava la sua strategia. Servire il popolo si chiamava una delle formazioni filo-cinesi generate dal già mitizzato Sessantotto di nuovo favoleggiato in questo profluvio di commemorazioni. E i populisti, anche quelli di destra, sono più o meno consapevolmente maoisti.

 

La città globale, del resto, divide; anzi, di più, si rende inaccessibile. Saskia Sassen e suo marito, il sociologo radical Richard Sennett hanno dedicato i loro lavori proprio a queste crescenti fratture urbane e umane. Intanto a Parigi la Sorbona ha aperto una cattedra dedicata alla città globale, con la Sassen ovviamente invitata d’onore. Qui è Rodi e qui bisogna saltare, parafrasando il detto del grande filosofo tedesco. Dalla città globale non si sfugge. Ma la frattura c’è e va ricomposta. Come? Larry Summers, l’economista americano che nei ruggenti anni Novanta dell’èra clintoniana è stato protagonista della globalizzazione, da anni batte sul tasto di una “ricostruzione dal basso”. Vasto programma. Nel suo libro di successo, l’economista turco Dani Rodrik, che insegna a Harvard, ha elaborato una teoria che ha chiamato “il trilemma politico dell’economia mondiale”. Il libro nella sua versione originale è intitolato “Il paradosso della globalizzazione”, l’editore italiano, Laterza, l’ha tradotto con “La globalizzazione intelligente”. “Abbiamo tre opzioni – scrive Rodrik – Possiamo restringere la democrazia, possiamo limitare la globalizzazione nella speranza di costruire la legittimità in patria o possiamo globalizzare la democrazia”. Gli elettori in Italia hanno scelto la seconda opzione, hanno preferito le sirene del protezionismo, se non proprio l’illusione di poter far da padroni in casa propria senza fare i conti con i vicini. Un atteggiamento comune a tutti i movimenti populisti e non solo in Europa, che altrove è stato contenuto da una risposta del sistema, con forme e in modi diversi, mentre in Italia è prevalso. Il riformismo globale è in ritirata, ma i populisti stiano attenti, è una ritirata strategica. Non si ritira, invece, la città globale. La fuga nel paesello, l’economia del villaggio, il chilometro zero, tutto quello che dà una patina gauchiste a un movimento che nella sostanza si caratterizza come reazione alla modernità, non è un sogno, ma una illusione; il futuro, anzi, il presente, è altrove.

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