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Nella battaglia per Tim la congiunzione tra Elliott e politica è la Bolloréfobia

Alberto Brambilla

La battaglia di logoramento per insidiare l’azionista francese Vivendi e i piani del fondo americano

Roma. Il fondo attivista Elliott si è imbarcato in una battaglia di logoramento in Telecom Italia (Tim) per insidiare l’azionista francese Vivendi. Il fondo americano ha cominciato a costruire una posizione azionaria nella quinta compagnia telefonica europea arrivando a minacciare, secondo ultime indiscrezioni, di fare avverare il peggiore incubo di Vincent Bolloré cioè prendere il controllo totale di Tim e quindi farsi carico del suo debito di circa 30 miliardi di euro.

 

Prima delle elezioni del 4 marzo Elliott ha approfittato dell’ostilità generale del sistema italiano – governo Gentiloni, tutti i partiti, da Forza Italia al Pd ai sovranisti M5s e Lega – verso la compagnia di Bolloré che con il 23,9 per cento aveva occupato il cda di Tim e approvato un piano che prevedeva lo scorporo della rete telefonica da conferire a una società ad hoc che sarebbe rimasta sotto totale controllo di Tim.

 

L’intenzione del fondo americano, che possiede il 6 per cento circa di Tim, è forzare un ricambio parziale del cda, avviare la separazione della rete riducendo la quota di Tim, e produrre un rialzo del titolo che durante la gestione Vivendi ha perso il 36 per cento. Il prezzo di carico delle azioni per Elliott è circa 0,70 centesimi e la soglia di 1 euro potrebbe essere quella d’uscita. I fondi attivisti per definizione acquistano azioni con l’obiettivo di generare valore per i soci.

 

Tuttavia Elliott sembra avere un comportamento atipico.

 

Certo non è intervenuto su input governativo – ha piuttosto approfittato della generale ostilità ai francesi e del momento critico per Vivendi – ma propugna una strategia parallela a quella della politica che, come di rado accade, è favorevole a un investitore estero. Il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, secondo cui Vivendi ha trattato l’Italia come fosse la Guiana francese, ha detto che Elliott ha “un progetto coincidente a quello che noi siamo intenzionati a fare per difendere l’interesse pubblico”. Elliott ha suggerito la creazione di una rete unica nazionale.

 

Il riferimento può essere a Open Fiber, operatore pubblico della fibra ottica controllato da Enel e Cassa depositi e prestiti, il cui processo di cablaggio di 7,5 milioni di case va a rilento. La convergenza d’intenti tra Elliott e Open Fiber è emersa in un twitt di Roberto Sambuco, advisor di Elliott per la società di consulenza Vitale & Co.. “Il modello di business non regge il passo degli investimenti necessari. Per avere una rete all’altezza si devono concentrare gli investimenti su un’unica rete. Fallite la concorrenza infrastrutturale imposta dal regolatore europeo negli anni 90 e la privatizzazione senza scorporo”, scrive Sambuco il 23 marzo. Il twitt ne contiene un altro di Franco Bassanini, presidente di Open Fiber, che rilancia l’appello a Deutsche Telekom del miliardario tedesco Ralph Dommermuth, il quale invoca un’unica società della rete sostenendo la necessità del modello “solo fibra”.

 

Soluzione simile a quella propugnata da Bassanini per portare la fibra fino a casa (Fiber to the home) in contrasto con la fibra fino agli armadietti (Fiber to the cabinet) di Tim. Un giorno Elliott potrebbe, per ipotesi, arrivare a scambiare con Vivendi azioni Tim e in cambio ottenere azioni della società della rete per poi, in caso, aprire l’azionariato a Open Fiber.

 

Non tutte le esperienze estere dicono però che avere un’unica rete funzioni.

 

L’Australia sta rivedendo quel modello: dopo aver creato una società della rete unica e pubblica nel 2009, la National Broadband Network, cui l’ex monopolista, Telstra, accettò di cedere la propria rete per 11 miliardi, e avere investito sull’Ftth, la strategia è cambiata. Ora punta a un mix di tecnologie che comprende anche Fttc e satellite con una spesa di 20 miliardi.

 

La battaglia di Elliott sarà lunga anche se Vivendi è in difficoltà. Vivendi ha risposto al tentativo di ribaltare il cda facendo dimettere otto suoi consiglieri (su 15) compreso il presidente di Tim e ceo di Vivendi Arnaud De Puyfontaine. Elliott vorrebbe tenere al posto di ad Amos Genish, gradito ai soci esteri, ma in fondo prigioniero in quanto espressione di un board che ormai non esiste più ed esecutore di un piano che dovrà essere rivisto. In alternativa il “piano B” di Elliott riguarderebbe Luigi Gubitosi, ex Wind e ora commissario Alitalia, o Paolo Dal Pino, ex Wind ed ex Telecom con ottime relazioni in casa berlusconiana. Elliott potrebbe poi affondare il colpo: i consiglieri di minoranza non dimissionari potrebbero presentare un esposto in Consob sostenendo che con le dimissioni della maggioranza del consiglio Vivendi avrebbe dimostrato il controllo de facto di Tim. E quindi, al limite, dovrebbe lanciare un’Opa su Tim e di conseguenza portare Vivendi a consolidare il debito di Tim. Cosa che Bolloré ha sempre voluto evitare.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.