Anche Marx avrebbe salvato lo Stato dagli statalisti

Carlo Stagnaro

La Cassa depositi e prestiti irrompe in Telecom con un 5 per cento che pesa il 51. Ma la mossa si ferma per ora alla vendetta contro Bolloré

Nel 1848, esattamente 170 anni fa, Karl Marx e Friedrich Engels chiamavano lo Stato moderno il comitato d’affari della borghesia. Chissà cosa penserebbero oggi, se – aggiornando il loro “Manifesto” – dovessero chiosare l’incredibile decisione della Cassa depositi e prestiti di acquisire il 5 per cento di Telecom. E’ un’operazione spericolata nella quale il governo prende un piccolo pacchetto azionario di un’azienda privata, con l’obiettivo di dire che le azioni non si contano ma si pesano e l’effetto, simbolico e sostanziale, di chiudere la parabola riformista iniziata a metà anni Novanta.

 

Per quale ragione il contribuente italiano, il “popolo”, deve assumersi una quota di rischio che può essere tranquillamente lasciata agli azionisti privati di Telecom (francesi o americani che siano) e dei suoi concorrenti? Questo Stato (italiano) ricorda molto da vicino il “comitato d’affari della borghesia” criticato da Marx

Per capire gli intendimenti e i sottintesi, bisogna anzitutto interpretare le motivazioni formali e i moventi reali. Cdp entra con lo scopo di forzare dall’interno una separazione dell’infrastruttura Telecom in una nuova società partecipata dalla stessa Tim, da Open Fiber e Cdp, col retropensiero di porre fine al modello verticalmente integrato di Tim. Primo paradosso: la manovra sembra mossa più da un riflusso protezionista in chiave antifrancese che da una policy di lungo periodo. Infatti, la separazione della rete – il Santo Graal da tanti rincorso negli ultimi vent’anni – si sta comunque concretizzando da solo, senza bisogno di ulteriori spallate, proprio per volere degli attuali azionisti (e su pressione del governo).

 

L’idea in sé non è necessariamente sbagliata, in quanto potrebbe valorizzare la concorrenza sui servizi. Ma la forma, in questo caso, è sostanza, e tempistiche, modalità e contropartite lasciano capire che siamo in una fase totalmente diversa: dietro la manovra di Cdp non c’è un disegno organico più o meno condivisibile, ma un ritorno in grande stile dello Stato imprenditore. Il punto da segnare non sta nel disegno o nella struttura del mercato ma nella presenza attiva dello Stato, e nella rete e nei servizi. Anche perché nella società pubblica nascente potrebbero anche annacquarsi i rumors sui limiti di un piano economicamente non sostenibile come quello tenuto a battesimo sotto l’egida di Open Fiber.

 

La ritrovata aggressività statalista di Cdp lascia sul tavolo diverse questioni, aprendo più problemi di quanti spera di risolverne e lasciando elevati rischi sulle spalle dei contribuenti. Primo: siamo sicuri che fosse realmente necessario questo intervento così muscolare? Come abbiamo visto, la separazione della rete si sta finalmente attuando, a prescindere dalla Cdp: pochi giorni fa la Telecom a guida francese ha notificato al Garante delle comunicazioni il progetto di “unbundling”. Non si capisce, allora, in quale modo il cambiamento nell’assetto proprietario possa agevolare un processo ormai già avviato. Potrebbe semmai ostacolarlo riaprendo una dialettica interna ed esterna a Telecom e accendendo nuovi appetiti dirigisti.

 

Secondariamente, anche ammettendo che risponda alla mission della Cassa partecipare alla società della rete di prossima costituzione, l’acquisizione di un pacchetto azionario di Telecom rappresenta qualcosa di ben diverso. In un settore così esposto a repentini cambiamenti di paradigma tecnologico, è anzi un investimento esposto a forti rischi. Ma la Cdp si alimenta del risparmio postale, cioè risponde a individui che tutto hanno fuorché un orizzonte speculativo. Ecco dove Marx ed Engels farebbero un salto: per quale ragione il contribuente italiano deve assumersi una quota di rischio che può essere tranquillamente lasciata agli azionisti privati di Telecom (francesi o americani che siano) e dei suoi concorrenti?

Questo ci porta a un terzo quesito: non è affatto chiaro quale sia l’interesse pubblico che si intende tutelare, né in quale modo l’attuale compagine azionaria ne pregiudichi la protezione nell’assenza del tutoraggio dell’azionista pubblico. Oltre tutto, se bisogna credere alla retorica dell’interesse nazionale, bisogna chiedersi a cosa sia servito discutere per mesi e mesi delle modifiche al “golden power”, successivamente attivate. Si è lungamente detto che i poteri speciali servivano proprio a garantire l’interesse nazionale senza fare il passo indietro verso le partecipazioni statali: cosa è cambiato nel frattempo? A cosa su deve questo triplo salto carpiato?

 

Allo stesso modo, è tutt’altro che ovvio che il coinvolgimento della Cassa in Telecom possa agevolare, anziché rallentare, il reale completamento del progetto della banda larga e, più in generale, la promozione della concorrenza. Se la competizione ha prodotto risultati lusinghieri nel settore delle telecomunicazioni in Italia – sia in termini di riduzione dei prezzi, sia di maggiori investimenti e innovazione – è anche perché scelte lungimiranti compiute dai governi di centrosinistra negli anni anni Novanta hanno separato l’interesse generale (la concorrenza e la tutela del consumatore) da quello aziendale (la valorizzazione dell’azione). Adesso che lo Stato torna ad allineare il proprio interesse a quello dell’azienda, viene meno pure la garanzia implicita che tutti i competitor saranno trattati allo stesso modo, senza figli e figliastri.

 

Conseguentemente, è chiaro che – nel continuo cambiamento che ha travolto le telecomunicazioni – il motore della domanda di rete da parte dei consumatori è la concorrenza sui servizi. Pure sotto questo profilo, lo Stato dovrebbe concentrarsi sullo stimolo all’innovazione, anche attraverso una Pa sempre più digitale; non giocare il gioco antico del business e della pretesa di dettare gli esiti del mercato vestendo contemporaneamente la maglia dell’arbitro e del giocatore.

 

Infine, è davvero incredibile che tutto questo avvenga per mezzo di un’acquisizione che, pur rilevante sotto il profilo finanziario, coinvolge un pacchetto limitato di azioni. Sembra un modo di dire: si scrive 5 per cento, ma si legge 51 per cento. Questa non è politica industriale né interesse nazionale, ma riesumazione di strumenti di policy vecchi, autoreferenziali e pericolosi (oltre che costosi): implica infatti dimenticare la lezione sulla distinzione tra regolazione e partecipazione al mercato. Mai come oggi è stato necessario salvare lo Stato dagli statalisti.