Brexit e antiputinismo spingono Londra alla ricerca dell'autonomia energetica
Il governo May avvia le esplorazioni di shale gas complice il divorzio dall’Ue per non finire in orbita russa
Roma. Il Regno Unito è seduto su un tesoretto energetico che potrebbe cambiare le sorti dell’economia traballante post brexit. Solo qualche giorno fa i tecnici della compagnia privata Cuadrilla hanno portato a termine la prima esplorazione del giacimento orizzontale di Preston, nel bacino gasiero di Bowland, a cavallo tra il Lancashire e lo Yorkshire. Se le stime dei geologi fossero confermate, il governo inglese avrebbe per le mani un giacimento di gas cinque volte più spesso della cosiddetta fascia americana della fratturazione idraulica – la cintura di Stati che va dalla Pennsylvania all’Ohio dove sono concentrate le attività estrattive dello shale gas statunitense – con riserve a sufficienza per rimpiazzare gli ormai esausti pozzi del Mar del Nord. Il British Geological Service ritiene, infatti, che il super giacimento britannico possa contenere circa 1 trilione di piedi cubici di gas (Tcf), una cifra astronomica se si pensa che il consumo annuo di gas dell’isola è di circa 2,5 milioni di piedi cubici.
Nonostante le proteste ambientaliste, negli ultimi mesi il governo di Theresa May ha ripreso in mano le sorti del dossier energetico, che aveva messo in forte difficoltà l’ex premier Cameron (forti le proteste dell’industria estrattiva nazionale, la Uk Oil and Gas Association), anche per allontanare le accuse di voler gestire l’uscita dall’Unione europea affidandosi sempre di più sulle fonti di approvvigionamento russe: simbolica, ad esempio, la consegna – avvenuta lo scorso inverno – di un carico di gas proveniente dal terminal di Yamal. Una mossa che non era piaciuta al Financial Times e che aveva spinto il governo britannico a sottolineare che di tutto il gas importato nel paese, la Russia fornisce meno dell’1 per cento. Downing Street, come confermato anche di recente in Parlamento, sta continuando dunque a cercare delle opportunità per ridurre la dipendenza dal gas russo, anche perché, come ha detto la stessa May, “Mosca sfrutta a proprio vantaggio il fatto che molti paesi siano dipendenti dalle forniture russe”. Parole che sono seguite ai fatti, fatti che trovano ora riscontro nelle scoperte energetiche di Preston. Basterà? Secondo Nannette Helher Feiderb, a capo del dipartimento della strategia di investimento e di ricerca di Credit Suisse, "Il Regno Unito ha parlato delle aspirazioni di ridurre la dipendenza dal gas russo durante il processo di uscita dalla Ue, è difficile dire se l'uscita dalle relazioni commerciali con l'Unione semplificherà o complicherà questo processo. Probabilmente, entrambi”, secondo la Feiderb che poi aggiunge, "in questo contesto, credo che la riduzione della dipendenza dal gas russo sarà graduale. Non credo che il Regno Unito in un attimo diventerà produttore e sarà in grado di diversificare l'offerta”.
Per Londra però l’esigenza di diversificare il proprio mix energetico sembra essere un’esigenza strategica. Come evidenzia un recente studio dell’Imperial College, in appena 12 mesi, il Regno Unito ha tagliato le emissioni delle sue centrali a carbone crollate del 25 per cento, un dato equivalente togliere dalle strade un terzo delle automobili circolanti. Gli studiosi dell'università londinese hanno accolto con gran favore questo "significativo" passo verso la decarbonizzazione, ottenuto grazie al passaggio delle centrali elettriche del paese dall'uso del carbone a quello del gas naturale. Gli studiosi puntano proprio sul gas piuttosto che – evidenza sempre il report – fare leva su una incontrollata accettazione di modelli matematici che offrono ottimistiche previsioni circa il ruolo delle fonti rinnovabili in un prossimo futuro. I ricercatori britannici hanno dimostrato che gran parte degli studi che prevedono entro il 2050 per la Gran Bretagna un soddisfacimento della domanda energetica basato al 100 per cento sulle fonti rinnovabili non sono attendibili, in quanto non tengono adeguatamente in conto l'affidabilità delle forniture di energia.
Gran parte della sicurezza energetica di Londra, dunque, è tornata sul baricentro degli idrocarburi. Conta anche il rinnovato impulso all’azione della British Petroleum, la principale compagnia petrolifera britannica che ha ribadito l’impegno allo sviluppo delle risorse nel Mare del Nord, attraverso il proseguimento dell’attività estrattiva nei pozzi a largo della Scozia di Alligin e Vorlich, che dovrebbero entrare in produzione nel 2020 con una capacità di 30 mila barili di greggio al giorno. La Bp ha poi ripreso la sua espansione anche in Asia e in Medio Oriente. In India, in particolare, la Bp si è detta pronta ad investire 2 miliardi di dollari per l’avvio di attività esplorative in acque poco profonde: la speranza è quella di ritrovare un Zhor asiatico a largo delle coste asiatiche. Sul versante mediorientale la Bp ha mantenuto un rapporto privilegiato con l’Oman dove si appresta a lanciare la seconda fase per lo sviluppo del super giacimento di Khazzan che dovrebbe portare ad un output produttivo di circa 1 miliardo di piedi cubici che presto potrà rappresentare l’assicurazione futura dalla tenaglia energetica di Mosca.