La battaglia del Leone di Trieste
Indizi sulla prossima baruffa franco-italiana per il controllo delle (più fragili) Assicurazioni Generali
Roma. Philippe Donnet, amministratore delegato delle Assicurazioni Generali, ama ricordare il passato di rugbista. Forse sottintendendo che il terreno si conquista palmo a palmo con azioni corali, piuttosto che con spettacolari blitz individuali. Ieri, all’assemblea della compagnia triestina – strategica non solo per l’attività assicurativa ma anche per la gestione del risparmio privato (466 miliardi) ed i titoli pubblici in portafoglio (66 miliardi) – Donnet non si è smentito, presentando risultati basati sul consolidamento. In particolare la cessione delle attività in Belgio per 540 milioni, settima dismissione consecutiva dopo quelle in Irlanda, Olanda e altri paesi ritenuti fuori dal core business. Il ricavato totale, 1,1 miliardi da iscrivere a bilancio nel 2018, servirà a lanciare il prossimo piano industriale triennale una volta scaduto quello in corso.
Nel frattempo, benché l’ad francese abbia parlato di “pieno successo” a partire dal dividendo cumulato di 5 miliardi, i principali concorrenti europei esibiscono performance più soddisfacenti, e strategie più aggressive. Generali capitalizza 25,9 miliardi contro gli 84 della tedesca Allianz, i 56,7 della francese Axa, i 47,4 della svizzera Zurich. Tutte e tre in cerca di prede. A marzo Axa ha comprato XL, un’assicuratrice americana da 12 miliardi. Zurich ha fatto shopping in Australia e America Latina. Allianz è reduce da un utile netto 2017 di 6,8 miliardi, tre dei quali destinati al riacquisto di azioni proprie. Generali non potrebbe perché, secondo molti osservatori, è proprio nel suo azionariato la principale debolezza.
All’assemblea Mediobanca, socio principale, si è presentato con il 12,97 per cento, e finora senza smentire il proposito di scendere al 10 tra un anno. Nel frattempo la merchant bank a sua volta controllata da Unicredit dovrà vedersela con una possibile guerra azionaria interna visto che l’8,5 di Unicredit è tallonato dal 7,9 del gruppo Bolloré, dal 5 di BlackRock e dal 3,3 di Mediolanum. Altra possibile baruffa anti francese in stile Tim.
Tornando a Generali, il blocco di imprenditori italiani vede il gruppo Caltagirone salito al 4 per cento (“siamo saliti perché credo nella società che sta andando bene e ci tengo molto all’italianità”, ha detto ieri Francesco Gaetano Caltagirone), la Delfin di Leonardo Del Vecchio stabile al 3,5 e la famiglia Benetton in ascesa al 3,04. I fondi esteri sono scesi dal 24,3 al 22,91, in controtendenza con l’attivismo mostrato su altri fronti. In definitiva se Mediobanca mantiene l’idea di ridurre la propria quota, la partecipazione verrebbe pareggiata dal nucleo italiano e la somma sarebbe leggermente inferiore a quella dei fondi. Ne risulterebbe una compagnia scalabile, e presumibilmente una battaglia finanziaria e politica da fare impallidire quella in atto dentro Tim tra Elliott e Vivendi. Un’anteprima lo si era visto a gennaio 2017, quando i rumor di un interesse di Axa fecero scattare un rastrellamento del 3 per cento da parte di Intesa (fu detto in accordo con Palazzo Chigi), il che provocò una reazione analoga da parte di Generali. Deposte le armi, la questione della vulnerabilità del gruppo assicurativo resta irrisolta. Le sue strategie sono penalizzate dalla catena azionaria a monte (Unicredit-Mediobanca), nella quale oltretutto non regna l’armonia. C’è anche appunto un ricorrente conflitto italo-francese – a cavallo del Duemila su Generali regnò per due volte Antoine Bernheim, lo scomparso zar della finanza parigina, prima sponsorizzato e poi “tradito” da Vincent Bolloré –, ma soprattutto c’è il sottodimensionamento dell’industria assicurativa italiana, evidenziata recentemente dal direttore generale della Banca d’Italia Salvatore Rossi. “Quello che servirebbe – dice Marcello Messori, direttore della scuola di Economia politica della Luiss – è la nascita anche in Italia di un campiona nazionale del risparmio di livello europeo, ora che Unicredit vi ha rinunciato vendendo Pioneer alla concorrenza di Amundi”. Quella cessione però servì per salvare la seconda banca italiana. Né pare possibile, stavolta, ipotizzare il non più irrituale ricorso alla Cassa depositi e prestiti: non ne ha le dimensioni, e soprattutto il risparmio (delle Poste) lo gestisce già.