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Alcune ragioni dietro alla rapida fine dell'idillio (almeno per ora) tra Merkel e Macron

Veronica De Romanis

La spinta riformatrice dell’Eurozona si è fermata per la ritrosia tedesca. Merkel deve mediare con gli estremisti e chi teme sussidi al sud Europa

Come da tradizione, a sgombrare il campo da ogni dubbio sulla posizione europea della Germania, non è stata la cancelliera Angela Merkel, più propensa a temporeggiare. Questa volta il compito è toccato a Olaf Scholz, neo inquilino del dicastero delle Finanze, che alla vigilia del mini vertice franco-tedesco tenutosi la settimana scorsa ha dichiarato: “Un ministro delle Finanze tedesco è sempre un ministro delle Finanze tedesco”. Nessuna accelerazione, quindi, nessuna fuga in avanti: la nuova governance dell’area dell’euro che il presidente francese, Emmanuel Macron, vorrebbe realizzare non è una priorità. Macron ha sfruttato il lungo periodo di stallo necessario a formare il governo di Berlino per mettere appunto un percorso di riforme “urgenti” e “indispensabili” per rendere l’area della moneta unica più resiliente agli choc asimmetrici che potrebbero colpire gli stati membri, in particolare quelli maggiormente vulnerabili dal punto di vista delle finanze pubbliche. Il piano prevede la trasformazione del Meccanismo europeo di stabilità (il cosiddetto Fondo salva stati) in un Fondo monetario europeo, dotato di strumenti di intervento in caso di crisi – tra cui una propria capacità di bilancio –, l’istituzione di un ministro delle Finanze europeo e, soprattutto, il completamento dell’Unione bancaria attraverso la creazione di una garanzia unica dei depositi.

  

Che l’Europa, e l’Eurozona in particolare, necessitassero di un cambiamento radicale era evidente anche alla Germania all’indomani della vittoria di Macron, e del rinnovato asse franco–tedesco. Solo un anno dopo, tuttavia, le cose sono mutate: l’accordo è in salita, i tempi lunghi. C’è da chiedersi quali siano la ragioni per passare dalla “magia” (così era stato definito dalla Merkel l’inizio del suo rapporto con il giovane inquilino dell’Eliseo), a un freddo “non così e non subito”. Cosa è cambiato in questo arco di tempo?

  

Innanzitutto sono cambiate le condizioni politiche in Germania. Merkel deve gestire per la terza volta una governo di coalizione con i socialdemocratici che – sebbene sconfitti alle urne – sono usciti rafforzati dalle estenuanti trattative per la messa appunto del Koalitionsvertrag (accordo di governo), culminate con l’uscita di scena di Martin Schulz. L’Spd, infatti, è riuscita a portare a casa un portafoglio di ministeri di peso, tra cui quello delle Finanze. Merkel, perde, quindi, una leva importante della politica economica. In secondo luogo, con l’entrata dei socialdemocratici al governo, il primo partito all’opposizione è diventato Alternative für Deutschland (AfD), quella forza di ultra-destra, nata dall’idea di un gruppo di economisti favorevoli a rendere il governo dell’Eurozona più rigido e legato a precise logiche sanzionatorie. In un simile contesto, la cancelliera deve mediare con l’ala più estremista del suo partito, ma anche con l’alleato bavarese (a settembre ci sono le elezioni regionali) che temono che l’approvazione del piano Macron possa ridurre gli incentivi degli Stati “spendaccioni” del sud a mettere in ordine le finanze pubbliche e rafforzare, di conseguenza, il consenso attorno ai partiti anti sistema. La logica, del resto, è sempre la stessa: prima si riducono i rischi, poi si condividono. “Responsabilità e solidarietà sono le due facce della stessa medaglia”, è sempre stato il mantra della cancelliera, ma dopo oltre sei anni di crisi, con cinque paesi salvati e la Grecia ancora sotto programma di aiuti, la fiducia tra i paesi della moneta unica non è più quella di un tempo. E, così, dimostrare “responsabilità” fiscale – in modo credibile – è diventato fondamentale in Germania. Nessun assegno in bianco, dunque.

   

Sul fronte esterno, e questo è il terzo e ultimo “cambiamento” che deve gestire la cancelliera, otto Stati del nord, capitanati dall’Olanda, hanno fatto sapere per iscritto alla Commissione europea che non sono disposti a accettare riforme volte a “ammorbidire” l’architettura fiscale dell’Unione. Interessante notare che tra i firmatari vi è anche l’Irlanda, un’economia che ha ricevuto circa 80 miliardi di euro dai contribuenti europei, aiuti che hanno permesso al governo di Dublino di uscire dalla crisi con un mix di rigore e riforme strutturali. Come prevedibile, considerati i suddetti vincoli, interni e esterni, la Merkel vuole procedere con cautela per evitare forzature con il suo partito e strappi con i paesi storicamente alleati.

  

Al presidente Macron ha, quindi, spiegato che le priorità tedesche, per il momento, sono l’immigrazione, la sicurezza, la difesa europea. Cambiare l’Eurozona resta un punto dell’agenda, ma non è considerato urgente. E’ chiaro che temporeggiare può rivelarsi una strategia fallimentare. Il rischio è quello di arrivare alla prossima crisi (che con ogni probabilità non dovrebbe farsi troppo attendere) senza gli strumenti atti a fronteggiarla. Il risultato potrebbe essere quello di rendere necessario il ricorso da parte della Banca centrale europea a strumenti di politica monetaria non convenzionali, come il Quantitative easing, invisi proprio ai tedeschi. Con un asse franco-tedesco che comincia a scricchiolare, l’Italia potrebbe giocare un ruolo importante per Macron sul tema dell’Unione bancaria, per la Merkel su quello dell’immigrazione, al fine di trovare un compromesso. Per ora, tuttavia, di questi temi non se parla.

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