Perché il concertone del Primo Maggio è fuori tempo
Il dibattito pubblico e politico non è all’altezza di un mercato del lavoro che mostra vitalità
Una vita in vacanza, grattarsi la panza, che poi fa rima con cittadinanza (reddito e pensione di), sono i temi dei concertoni e dei talk-show. Chi li promuove ha libertà di insulto dal palco di San Giovanni e, peggio ancora, ha diritto di dire banalità con applauso nei salotti televisivi. Poi, scherzo dei calendari statistici, succede che proprio il giorno dopo escano i dati mensili dell’Istat su occupati e disoccupati a raccontare un’Italia completamente diversa.
Il segno forte, sotto al cappello di un’apparente stabilità dovuta alla costanza del tasso di disoccupazione, è nella vitalità del mercato del lavoro. Gli inattivi che scendono al minimo da quando esiste la serie storica, sono 150 mila in meno rispetto alla precedente rilevazione, testimoniano sia della percezione di possibili sbocchi lavorativi sia della spinta a cercare un rafforzamento del reddito, rinunciando quindi a forme assistenziali, comprese quelle familistiche. Il dato va letto assieme ad altre due tendenze, che, in modi diversi, lo rafforzano nella sua significatività. Prima di tutto c’è un iniziale segnale di rallentamento nel ritmo di crescita economica, percepibile già nei primi mesi del 2018. Quindi il dinamismo del mercato del lavoro è tutto interno alle scelte e ai posizionamenti di lavoratori soprattutto e un po’ meno delle imprese, non c’è un aumento di domanda tirato dalla crescita economica, ma c’è una riorganizzazione che parte dalle scelte (e dalle necessità) individuali. E d’altra parte la rilevazione ormai abituale e ripetuta fatta dalla Cna tra le sue aziende mostra qualche segno di rallentamento nel ritmo delle assunzioni presso le piccole e medie imprese, ovvero quelle più esposte a mutamenti della crescita (mentre nei mesi scorsi il settore era stato più dinamico rispetto all’intero mercato). La seconda tendenza è che ci si comincia a muovere dentro a un sistema di regole stabilizzato, a partire dal Jobs Act. Come tutte le riforme economiche anche nel caso delle norme sui rapporti subordinati e nuove regole devono essere assimilate e soprattutto devono essere prese sul serio, essere ritenute credibili, e allora cominciano ad avere effetti. Allo stesso modo, ma con un approccio più congiunturale, gli incentivi della manovra per il 2018 hanno prodotto effetti misurabili in questa rilevazione e non subito a inizio anno.
L’altro indice che ci racconta davvero come vanno le cose è quello dell’occupazione. Ha il pregio di essere un semplice conteggio degli occupati, e non un tasso calcolato rispetto ad altre variabili, e ci dice che in marzo le persone con qualche forma di reddito da lavoro sono 62 mila in più rispetto al mese precedente. In gran parte si tratta di lavoratori indipendenti, il cui totale era calato nei mesi precedenti e quindi ora recuperano terreno, e c’è un contributo rilevante anche da contratti a termine (probabilmente una riorganizzazione del mercato dopo la fine dei voucher). Non rilevano le sciocchezze con cui si critica l’Istat per il calcolo tra gli occupati di chi riferisca anche di una sola ora retribuita nella settimana del sondaggio. Intanto sono pochissimi, numero non significativo, e comunque quella rilevazione nasce da una convenzione statistica adottata da anni e serve non a misurare in astratto la quantità di lavoro ma la elasticità del mercato rispetto alle politiche pubbliche e ai comportamenti delle imprese. Insomma, è il dibattito pubblico e politico a non essere all’altezza di un mercato del lavoro che invece mostra vitalità o almeno desiderio di smuovere la situazione. Prova ulteriore nella famigerata disoccupazione giovanile, anch’essa citatissima e a sproposito nelle invettive televisive e tra i “fate girare” internettiani. Be’, anche la disoccupazione calcolata nella fascia tra i 15 e i 24 anni di età diminuisce significativamente scendendo al 31,7 per cento e cioè al tasso più basso dal dicembre 2011 a questa parte.