Il fogliante Giovanni Tria al Mef
Cosa c’entra un economista pragmatico e pro euro col governo “anti tutto”
Per un articolo scritto sul Foglio, dove ha tenuto a lungo la bella rubrica “Diario di due economisti” assieme al collega Ernesto Felli, Giovanni Tria, il preside della Facoltà di Economia all’Università romana di Tor Vergata, ricevette nel 2007 un premio. Da chi? Da Paolo Savona, particolarmente convinto dalla tesi, esposta con vigore da Felli e Tria, che fosse opportuno spostare l’imposizione fiscale dalle imposte dirette a quelle indirette. Cioè dall’Irpef all’Iva, idea non molto popolare, anzi considerata reazionaria, in un’Italia a bassissimi o nulli imponibili e ad amplissimi consumi. E che certamente oggi non troverebbe il gradimento dei due capi politici del governo, Matteo Salvini e Luigi Di Maio. “Ma – concede sorridendo Ernesto Felli – eravamo in tutt’altro periodo. E lo stesso Savona ci premiò come ‘economisti giovani’, sorpreso che avessimo in fondo una quindicina di anni meno di lui”.
Ora uno dei primi compiti di Tria sarà di trovare le risorse proprio per scongiurare l’aumento dell’Iva (questione sulla quale torneremo tra poco). Le sue idee sono in ogni caso improntate al pragmatismo: neppure l’etichetta di postkeynesiano – l’importanza data alla domanda come motore principale della crescita –, etichetta che pochi economisti rifiutano, tranne quelli ultradogmatici, lo identifica. Se si deve parlare di John Maynard Keynes, dice spesso, meglio riferirsi al perfezionamento in epoca recente (perfezionamento vero, non da curriculum gonfiato) alla Columbia University di New York, sempre assieme a Felli, sotto l’insegnamento di Edmund Phelps, premio Nobel nel 2006 “per aver chiarito la comprensione delle relazioni tra gli effetti a breve e lungo termine delle politiche economiche”. E Phelps è effettivamente il capostipite dei neokeynesiani, dove però il suffisso pare prevalere sull’aggettivo. Esempio: Phelps ha teorizzato che la disoccupazione non può essere del tutto estirpata in quanto un livello di senza lavoro esiste in natura, a cominciare da coloro che non vogliono lavorare. Il contrario – sintetizziamo – dell’assistenzialismo.
Del possibile nuovo ministro dell’Economia, l’esperienza extra accademica più recente è stata la presidenza della Scuola nazionale della Pubblica amministrazione, fortemente voluta da Renato Brunetta quando era per Forza Italia il ruggente ministro del settore pubblico. Con sede nella reggia di Caserta, selezione per concorso e ambizione di divenire in prospettiva l’Ena italiana, l’iniziativa non ha però incontrato il sostegno del governo di Matteo Renzi, in particolare del ministro Marianna Madia. Tria ne è ancora a capo, ma la sua attività è stata finora concentrata nell’università. Dunque Tria è molto apprezzato, e anche amico, di Brunetta: se esistesse davvero la proprietà transitiva, non proprio il miglior passepartout per il governo leghista-grillino. Brunetta è tra coloro che il segretario del Carroccio ha messo nella black list di chi gli fa la guerra in Forza Italia. E, in senso lato, e se dovessimo attribuirgli qualche simpatia politica, un ministro più affine all’area moderata del centrodestra (e dunque gradito anche all’alleato non alleato di Salvini, ovvero Berlusconi).
Quanto al famoso programma del cambiamento steso dal tandem M5s-Lega, Tria gli ha dedicato un’analisi su Formiche.net, il sito al quale collabora. Analisi non proprio benevola, in particolare riguardo al reddito di cittadinanza definito “in questi termini, e senza specificarne le coperture, un improbabile sussidio”. Diverso il giudizio sulla flat tax salviniana: “Perché no, magari partendo in modo progressivo, e finanziandolo facendo scattare le clausole di salvaguardia connesse all’aumento dell’Iva”. E questo per non farne “mere scommesse”. Un altro punto aveva attirato le perplessità dell’economista: la mancanza di un progetto di politica industriale, con un riferimento ai progetti di riconversione dell’Ilva definiti “imbarazzanti”, e la richiesta di iniziative vere a favore delle infrastrutture. Ma il vero punto dirimente delle ultime settimane è stato l’euro. Tria non è neppure un po’ contro la moneta unica, pur giudicando i meccanismi europei tutt’altro che perfetti. Non ha piani B nel cassetto. E non è neppure anti tedesco: “I problemi dell’Italia” dice “non dipendono dalla Germania. Questo è certo”.