Figurine Panini, calciatori 2008 2009 (LaPresse)

Vendere le figurine per allevare mucche? Il metodo Panini

Michele Masneri

La storia della famiglia modenese che ha rivoluzionato l’impero

Quante sorprese in provincia: a quattro chilometri da Modena, ecco il feudo dei Panini: conosciuti nel mondo per aver inventato le figurine, anche se le figurine da vent’anni e passa non sono più della famiglia. Ma invece di trasformarsi in rentier, i discendenti si sono scatenati nei più diversi ambiti, a partire dal formaggio. Pascolando tra distese piatte e casolari placidi come in una foto di Ghirri, ecco “Hombre”, strano nome per una tenuta dove si fanno non corride ma il parmigiano, primo parmigiano reggiano completamente biologico d’Italia. Qui, in una Silicon Valley da mungitura, convivono allegramente cinquecento vacche, un museo della Maserati e una startup che fabbrica stereo di fascia altissima.

      

“I Panini erano tantissimi”, dice al Foglio Matteo, guidandoci tra i campi e le stalle. “E un po’ tutti matti”. Matti ma industriosi

“I Panini erano tantissimi”, dice al Foglio Matteo, 48 anni, guidandoci tra i campi e le stalle e un’edicola che campeggia in mezzo alla fattoria. “E un po’ tutti matti”. Matti ma industriosi. “Mio nonno aveva 4 maschi e 4 femmine, e mia nonna Olga dopo la guerra rimane vedova, e per far campare tutti questi figli nel 1946 apre questa edicola: che vendeva niente”. Come niente? “Non c’era niente da vendere all’epoca, subito finita la guerra: solo la Settimana Enigmistica cancellata, cioè già compilata a matita, e riutilizzata, e i giornali già letti: tutto veniva venduto due volte”. Adesso questa storica edicola che è stata sempre in Corso Duomo è stata comprata dalla famiglia e spostata qui, in una strana fazenda che si chiama Hombre perché il padre di Matteo, Umberto, era emigrato in Sudamerica. Aveva fatto il fabbro, “il tubista, tanti lavori, ma il mondo era sempre stato troppo piccolo per lui, e aveva voluto emigrare, negli anni Cinquanta va in Venezuela, un paese completamente da costruire”.

     

Nel frattempo però il fratello Giuseppe si era inventato le figurine celebri. Era il 1961, trovarono a Milano un lotto di vecchie figurine invendute delle edizioni Nannina. I fratelli lo acquistarono, e imbustarono due figurine ciascuna in bustine bianche con cornicette rosse, mettendole in vendita a 10 lire l’una. Il successo fu enorme e inaspettato: le bustine vendute toccarono i tre milioni. Un successo che continua ancor oggi: la settimana scorsa una banda ha svaligiato a Buenos Aires la tipografia che stampa le figurine Panini per i prossimi Mondiali di Russia, 638 casse destinate alle edicole del paese. Contenevano 31.900 figurine di tutte le squadre. Senza doppioni si potevano completare 47 album.

Nel 1962 nasceva la collezione Calciatori: il primo album per la raccolta (per la copertina scelsero il centrocampista di allora del Milan, Nils Liedholm). Quindici milioni di esemplari venduti. “Mio padre, che stava in Venezuela, riceve una busta dal fratello Giuseppe: ‘L’America è qua’, c’è scritto”. “Lui che s’era sposato per procura, e pensava di non tornare mai più, torna. Torna e si accorge che però manca la tecnologia, la colla viene mescolata con un badile, le figurine vengono imbustate a mano, tutto è completamente manuale. Allora si inventa una macchina micidiale che si chiama Fifimatic (perché qui in questa zona le figurine le chiamavamo le fifi), e la Fifimatic ancora oggi è in funzione: il bambino trova sei figurine diverse in ogni busta, tutto automatico”.

  

I fratelli si applicano: Giuseppe inventore (oggi sarebbe tipo chief technology officer), Benito gestore delle spedizioni, Umberto tipografo e Franco Cosimo amministratore.

 

“Del resto la figurina non consuma batteria, non serve aggiornarla, non devi avere il wi-fi, è sempre una magia in 5x7”

Nasce un immaginario: “Sandokan, Pinocchio, le città italiane, gli indiani, gli animali”, sogna un po’ Matteo Panini. “Le figurine erano anche un mezzo di scambio, era come una moneta, se li scambiavano tra di loro, e oggi se ne vendono ancora, tantissime, c’è una generazione di padri che hanno riscoperto le figurine”, dice ancora l’erede. “Del resto non consumano batterie, non serve aggiornarla, non devi avere il wi-fi, è sempre una magia in 5x7. Ha creato un immaginario: Garibaldi noi lo conosciamo per come l’abbiamo conosciuto sulle figurine Panini”.

 

Le figurine negli anni Sessanta hanno un successo bestiale. “Mio padre guadagna un sacco di soldi, e decide di investirli nei campi, compra questa tenuta e la chiama Hombre, perché lui qui era proprio l’hombre del Venezuela”. Compra la terra prima per hobby, alle cinque di pomeriggio finisce allo stabilimento e viene in campagna: “Poi diventa un lavoro vero: comincia a comprarne tanta, tante biolche” (la biolca è l’unità di misura emiliana). “E’ una misura bastarda”, dice Panini, “è la quantità che un bifolco, come si diceva un tempo, può lavorare in un giorno con due buoi. Sono 3.382 metri quadrati, quella modenese è diversa da quella reggiana, e quella bolognese è diversa ancora. Si paga ancora oggi col suo prezzo in lire, in milioni, perché i tuoi nonni e i tuoi bisnonni l’hanno comprata in lire. E poi c’è sempre un mediatore. E’ una liturgia, è un mondo bellissimo, molto antico. La terra del resto sta sempre qua”.

 

Nella fifi-valley qualcosa però cambia: negli anni Novanta la Panini è stata venduta, ma senza tanti rimpianti. “E questa qua della fattoria è diventata la nostra attività principale”, dice Matteo Panini. “L’azienda fu venduta a Robert Maxwell, editore del Times di Londra: personaggio misterioso, aveva deciso di comprarsi la Panini in quanto casa editrice: perché lui voleva comprarsi un giornale in Italia, ma non glielo lasciavano fare, così decise di entrare nel settore con questa strategia”. (Poi Maxwell ha rivenduto, poi è finita a Marvel, poi a un gruppo di manager che faceva capo a Merloni, fattura oltre seicento milioni di euro. E’ tornata italiana, la fabbrica è sempre dov’era, niente è cambiato).

 

“Io volevo costruire macchine da corsa”, dice Panini. “Ho fatto ingegneria ma ho capito che non era il mio mondo”. Il suo mondo è più la terra. “Vado ogni tanto a New York, a Londra, ma questa campagna, questa provincia, con tutti i suoi difetti, mi piacciono tanto. Ho una cinematica che ha bisogno di tanto spazio. Magari la trovo in Colorado, ma in città no. Noi siamo molto provinciali a Modena, stiamo sempre all’ombra della Ghirlandina. Mia figlia che ha sedici anni, le dico sempre che deve partire. Poi deve tornare. Tanto noi siamo sempre qua, non andiamo da nessuna parte”.

 

  

Passano dei trattori giganti. “Tanti abitano dentro la tenuta, come una volta”. E’ un microcosmo, sembra la tenuta di Goldfinger in 007, con il vialone per arrivare, e c’è anche un Fort Knox dove al posto dell’oro c’è il parmigiano. Entriamo dentro nel corpo principale, dove impilate meglio di lingotti ci sono forme a perdita d’occhio. “Ne facciamo dodici al giorno, dunque 4.400 ogni anno. L’85 per cento lo vendiamo all’estero. E tutta la produzione è venduta con due anni di anticipo”. Quanto costa ogni forma? “Cinquecento euro”. Che per le 7.000 custodite qua dentro è una bella cifra. Furti ne avete mai avuti? “E’ successo, ma è una merce poi difficile da piazzare perché è molto particolare”, dice Panini, che tra i suoi clienti ha da sempre Massimo Bottura, star locale e globale della cucina. Il suo parmigiano è tutto bio, a chilometro meno che zero. “Noi produciamo tutto qui, dal fieno all’acqua dei pozzi che è nostra”, dice illustrando una cartina con le varie zone di produzione del Parmigiano su una mappa, e mentre una signorina porta in giro un gruppo di turisti stranieri, “the organic certification is on the top”, dice, e i turisti estasiati, da aprile a settembre c’è il tour inglese con degustazione. Lasciamo il caveau (“il parmigiano da sempre è usato anche come ‘conto anticipo’ con le banche, come garanzia per avere prestiti; da sempre qui se chiedi soldi in banca ti chiedono il parmigiano, e se entro sei mesi non restituisci il prestito se lo tengono”).

 

Altra particolarità della tenuta è che “abbiamo due razze, la pezzata rossa e la frisona italiana”. Le mucche sono cinquecento e hanno un’aria decisamente felice. Passano mentre andiamo verso un altro capannone, superando vecchi trattori, sculture di ferro dell’ineffabile fondatore dell’Hombre, Umberto Panini (questa si chiama “Scusa Calder”, perché imita i mobile dell’artista americano, un albero di ferro si chiama “No water”); il capannone anonimo, con understatement emiliano, ospita una delle collezioni più importanti al mondo di Maserati. “Dopo aver iniziato tutti al collezionismo con le figurine, ha cominciato anche lui la sua collezione”, dice il figlio. “Di Maserati, attenzione. Maserati e non Ferrari, perché la Ferrari è di Maranello, ma la Maserati è di Modena”. La collezione, una quarantina di esemplari, se fossimo in America, sarebbe The Biggest Maserati Museum annunciato da cartelli in tutto il paese, qui devi venirla a cercare tra le mucche felici. Comunque arrivano diecimila visitatori ogni anno. Tutto privato, “le macchine erano di proprietà della Maserati stessa, che in un momento di difficoltà, prima di passare alla Fiat negli anni Novanta, mandò tutto all’asta”, racconta ancora Panini. Ma poi l’intervento di suo padre, d’intesa con l’allora ministro della Cultura e “paninaro” Walter Veltroni, coinvolse la famiglia, che comprò tutto e l’espose qui. “Così son diventate la nostra passione”.

 

“Abbiamo due razze, la pezzata rossa e la frisona italiana”. Le mucche sono cinquecento e hanno un’aria decisamente felice

Diciannove Maserati tra cui la monoposto 6C 34, prodotta in soli 6 esemplari, portata alla vittoria da Tazio Nuvolari nel Gran Premio di Modena del 1934. O la A6GCS berlinetta Pininfarina prodotta in soli quattro esemplari ritenuta dalla critica internazionale una delle più belle creazioni del carrozzaio torinese. O ancora la 420M58, la mitica “Eldorado” che, guidata da Stirling Moss, lottò per le prime posizioni nella 500 Miglia di Monza del 1958. Ma poi ci sono anche, un po’ tipo garage di qualche nonno fantasioso o wunderkammer agricola, una Mercedes 300 Sl “Ali di Gabbiano” o una Cadillac Limousine 355 del 1931 con targa vaticana, e poi biciclette e trattori e rarissime moto Maserati.

 

Poi si sente una musica proveniente da una stalla, è un altro cugino, è Giovanni Panini, che lavora qui e che insieme a Matteo lavora a iXoost, startup immaginifica. Si entra dentro e si trovano dei gran tubi di scappamento; lui li riutilizza (ma solo da motori di supercar, tipo Ferrari e Lamborghini) come casse per gli iPhone. Si vendono con massimo successo agli sceicchi e ai ricchissimi globali.

 

Ma è ora di colazione, chiediamo un consiglio, Bottura sarà impossibile e a parte i micidiali costi ci sono liste d’attesa lunghissime, optiamo per l’Aldina, storica trattoria vicina al mercato. “Massimo Bottura è stato uno dei nostri primi clienti”, dice Matteo Panini. “E’ il nuovo patrono di Modena, ha sostituito san Gimignano. Tutti vengono qui per lui ora”. “L’hanno accusato di fare la cucina molecolare”, dice Panini. “Ma noi qui a Modena l’abbiamo sempre fatta la molecolare. Solo che le molecole son grosse così, e son fatte di tagliatelle”.

 

“Bottura è stato uno dei nostri primi clienti”, dice Matteo Panini. “E’ il nuovo patrono di Modena, ha sostituito san Gimignano”

Dopo mangiato dalla Aldina, trattoria al primo piano, andiamo a trovare la cugina Laura Panini che è figlia del fratello Franco. Anche loro orfani delle figurine, ma che non son stati con le mani in mano; “ah, l’azienda storica è in condizioni ottime, va benissimo”, dice Laura della fabbrica che non è più loro, “la famiglia è ancora molto unita, eravamo sedici figli, era difficile gestire il passaggio di generazione. Mio padre aveva una gran passione per i libri e decise di fare una casa editrice che si chiama Franco Cosimo Panini”. Fanno libri d’arte e cartoleria, e poi si scopre che sono i più grandi produttori di diari scolastici d’Italia. Dipendenti? Centocinquanta. Fatturato? Trenta milioni solo di cartoleria. Trentacinque totali. Ammazza. Ma quindi i ragazzini si comprano ancora i diari? “Certo. E’ un modo per avere dei ricordi tangibili. Il digitale scompare, mica come la carta” dice Laura Panini tutta contenta. “Poi facciamo le cartelle, gli astucci, zaini, quaderni. A scuola del resto ci vanno tutti. “E con l’editoria saremmo già tutti morti di fame”. Certo, loro hanno fondato il giornale Comix, e pubblicano i fumetti di Calvin e Hobbes e la Pimpa. Ma la genialata è stata di trasformare Comix in un diario scolastico. “Ne vendiamo un milione e trecentomila l’anno”. Diari e affini vanno benissimo. “Si chiama tecnicamente back to school, in Italia ci sono ancora 7-8 mila cartolerie oltre la grande distribuzione. Nei paesi, nella provincia, si usa ancora molto la cartoleria. Di diari si vendono due milioni di pezzi l’anno”. Lei questo business se l’è inventato venticinque anni fa, quando hanno venduto le figurine. “Siamo un po’ matti, è vero, in famiglia. Quando i nostri genitori hanno preso tanti soldi, ed era l’epoca in cui i Bot rendevano a doppia cifra. Invece ci siamo buttati. Abbiamo anche fatto tanti errori, eh”.

 

“Non abbiamo la produzione, tutti gli accessori si fanno in Cina, ormai sono bravissimi. Naturalmente facciamo un controllo ferreo sulla qualità”. Wwf, hanno acquisito vecchi marchi come la Malipiero, hanno le licenze del Milan, e la Ferrari, e i gadget per il museo egizio di Torino. Anche Laura Panini continua la tradizione di famiglia, produttività anche biologica, ha 4 figli, due stanno a New York: “La provincia dopo un po’ è soffocante”, dice, ma si vede che non ci crede molto. In fondo l’America è anche qui, tra la via Emilia e il West, come cantava un altro grande modenese.

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