Evviva la disoccupazione
Altro che reddito di cittadinanza. Catalogo di enti e strumenti che proliferano sulla pelle di chi cerca lavoro
L’intoppo è sempre in agguato. Un cavillo burocratico, un’impugnativa del governo di Roma, chi può dirlo. Ma se i santi aiuteranno, l’appuntamento per circa 2.800 palermitani è per il primo gennaio prossimo. Quando lo spumante da stappare sarà doppio, per festeggiare il nuovo anno e l’ingresso nella Resais, il megaparcheggio del personale di cui non si sa bene che fare in quel gigantesco stipendificio chiamato Regione Siciliana. Quella che contende alla Cuba postcastrista il primato di ultima isola del socialismo reale.
La Resais nacque proprio negli anni d’oro di mamma regione. La società assorbì tutto il personale che fuoriusciva dalle partecipate regionali, ai tempi in cui la regione imprenditrice gestiva minatori e operai a iosa. Nacque così questa specie di agenzia di collocamento che per un bel pezzo ebbe come mission quella di tenere persone a casa pagate per non far nulla. Poi a metà degli anni 80 si decise che quest’esercito qualcosa dovesse pure farla per guadagnarsi la pagnotta. E i dipendenti Resais finirono a lavorare alla regione o negli enti pubblici, magari ad affollare le portinerie degli assessorati, guardiole con la densità demografica di Tokyo centro, o altrove. Nel frattempo molti sono andati in pensione, anche con una manciata d’anni di contributi, anche a 52 anni d’età, “accompagnati” a spese della regione stessa con maxi-scivoli da vertigini. Ora, le porte della società-parcheggio stanno per aprirsi, in forza dell’ultima finanziaria regionale, per il piccolo esercito dei percettori di sussidio di Palermo, in attesa notte dei tempi. Buona parte risalgono agli anni Novanta (c’era già Leoluca Orlando, che all’epoca si guadagnò nelle borgate il soprannome di ’u Papà), quando si imbarcarono in progetti pubblici soggetti di categorie svantaggiate (ex detenuti, ex tossicodipendenti e via dicendo). A cui si aggiunsero i “Pip” (acronimo che sta per Piani di inserimento professionale), pensati in origine per le aziende provate e poi finiti come s’usa in Sicilia sul groppone del pubblico. Da una vita stanno sparpagliati a lavorare nei posti più disparati, prendono il loro sussidio e aspettano – molti hanno tra i 50 e i 60 anni – che prima o poi si trasformi in un vero stipendio.
La Resais, una specie di agenzia di collocamento che ha avuto come mission quella di tenere persone a casa pagate per non far nulla
E’ solo una delle storie del grande libro disoccupati e spesa pubblica in Sicilia. Un romanzo imponente che abbonda di capitoli appassionanti. L’ultimo si candidano a scriverlo i Cinque stelle con il loro reddito di cittadinanza, se e quando da promessa elettorale si trasformerà in realtà. La stampa nazionale riportò con grande risalto come in qualche Caf siciliano pochi giorni dopo l’exploit pentastellato del 4 marzo venissero affissi cartelli in cui si precisava che non si preparavano moduli per il reddito di cittadinanza. Colore o meno, non ci sarebbe da stupirsi se qualcuno da queste parti avesse davvero pensato di portarsi avanti col lavoro. Perché la storia della Sicilia insegna al disoccupato che chi tardi arriva male alloggia. E che è bene tenere le antenne dritte per capire i movimenti di mamma regione e dei suoi politici acchiappavoti piuttosto che perdere tempo ad arricchire il curriculum.
In Sicilia il tasso di disoccupazione supera il 21 per cento, quella giovanile si aggira intorno al 50. Più di 200 mila famiglie vivono in povertà. “In Sicilia – spiega l’economista Pietro Busetta – il rapporto fra occupati e popolazione è di uno a 4, in Emilia Romagna di uno a 2. Se avessimo il rapporto emiliano gli occupati sarebbero 2,3 milioni”. E invece sono meno di 1,4. Ma la grande platea della disoccupazione ha rappresentato negli anni una manna per il Palazzo, sia come leva di consenso sia come occasione di spesa. Ufficialmente finalizzata a contrastare la disoccupazione, ma spesso diventata assistenzialismo puro o peggio ancora occasione di ricchissimi business.
I precari degli enti locali: stanno lì, molti di loro anche da trent’anni. Sono più di diecimila persone, vanno avanti di proroga in proroga
Emblematica è la tormentata storia della formazione professionale. Un settore gestito dalla regione siciliana che negli anni passati ha assunto dimensioni elefantiache, con costi stellari e risultati risibili. I corposi investimenti profusi hanno creato ben poco lavoro se non per i formatori stessi e ben poca ricchezza se non per gli enti che si spartivano la torta dei finanziamenti. Enti che in certi casi incrociavano a vario titolo big della politica. Una mangiatoia gigantesca. Una parte è finita in inchieste giudiziarie come quella che ha portato a una pesante condanna in primo grado per Francantonio Genovese, già parlamentare, già sindaco di Messina, già segretario regionale (il primo) del Pd, già transitato in Forza Italia, nelle cui liste allo scorso giro alle Regionali è stato eletto il figlio ventunenne con una vagonata di voti. Genovese in primo grado è stato condannato a undici anni per il processo scaturito dall’inchiesta sui “Corsi d’oro”, cioè appunto sul dorato business della formazione professionale regionale, per quella che i giudici di primo grado definirono una “sistematica quanto capillare depredazione di risorse pubbliche” nelle motivazioni dove tra l’altro si leggeva che “l’ente di formazione è, per un verso, un imponente bacino cui attingere consenso elettorale (ciò vale all’evidenza per l’imputato Genovese) e, per altro verso, solo lo strumento per appropriarsi di denaro pubblico”. E non fu quella l’unica inchiesta di impatto mediatico sul tema. Molto si discusse dell’indagine che ruotava attorno al manager della comunicazione Fausto Giacchetto e che riguardava fiumi di denaro – si parla di milioni di euro – che sarebbero dovuti servire a far trovare lavoro ai disoccupati e che invece sarebbero serviti ad altro secondo i giudici di primo grado che emisero una serie di condanne. Ma al netto delle cronache giudiziarie, l’intero sistema della formazione professionale, che negli anni d’oro del cuffarismo aveva assunto dimensioni abnormi, assorbì milioni di euro, buona parte dei quali di fondi europei, trovando lavoro riempiendo banchi di disoccupati che solo di rado si trasformarono in occupati ma distribuendo risorse a enti che negli anni diventarono in certi casi veri e propri colossi.
Dopo gli scandali del passato, la formazione professionale ha conosciuto una lunga stagione di stasi. Provò a sbloccare qualcosa ai tempi dei pasticci dei governi di Rosario Crocetta la giovane assessore al ramo Nelli Scilabra, studentessa fuoricorso piazzata dall’allora governatore gelese su una scomodissima poltrona. Ne venne fuori un altro inciampo clamoroso, l’epic fail del famigerato “click day” del Piano Giovani, quando al pronti e via il sito Internet dedicato andò al tappeto mentre frotte di giovani disoccupati tentavano di acciuffare la chance di un tirocinio in azienda pagato qualche centinaio di euro.
Il tasso di disoccupazione in Sicilia supera il 21 per cento, quella giovanile è intorno al 50. Più di 200 mila famiglie vivono in povertà
Dura la vita del disoccupato in Sicilia. Dura se non arriva la mano santa dell’appartenenza a piazzarti sul trenino giusto. Quello che in qualche modo ti porta avanti di stazione in stazione, sperando di arrivare un giorno all’agognato capolinea dei sogni: la stabilizzazione. E’ la storia delle migliaia di precari degli enti locali. Misero un piedino – erano disoccupati – dentro la pubblica amministrazione una vita fa, negli ultimi scampoli della Prima Repubblica, attraverso cooperative e affini. Era la fine degli anni 80, quando si aprirono le danze di un’operazione che ebbe come ovvio i suoi big sponsor politici. Da allora lì stanno, molti di loro anche da trent’anni. Sono più di diecimila persone, vanno avanti di proroga in proroga, di anno in anno, incassando da una vita promesse di stabilizzazione definitiva da politici di tutti i colori. Ma poche cose in Sicilia sanno essere più stabili e durature del precariato. E il passare del tempo sana tutto e tutto fa dimenticare. E quelli che in un’era lontana riuscirono a infilarsi nel pubblico senza concorso a scapito d’altri che magari altrettanto meritevoli non furono tanto lesti o tanto fortunati, col passare dei decenni diventano nella narrazione vittime a loro volta del cinico sistema tritacarne.
E ora, dopo l’ondata gialla che ha travolto l’Isola alle politiche – 48 per cento il risultato monstre del Movimento 5 stelle in Sicilia il 4 marzo – si parla di reddito di cittadinanza. Che avrà pure avuto un suo peso nel successo dei grillini al sud, sebbene parecchio gonfiato nelle analisi della stampa nazionale. Il punto è che in Sicilia un embrione di reddito di cittadinanza, ossia l’idea che un sussidio, magari mascherato da stipendio, spetti un po’ a tutti, o almeno a quante più persone possibile, c’è già da quel dì. Come raccontano le storie citate sopra. E tante altre. Ad esempio quella ormai leggendaria dei forestali, gli addetti della regione da non confondere con le guardie del corpo forestale. Si tratta piuttosto di operai stagionali, difficile orientarsi anche nello stabilire quanti sono, c’è chi dice 20 mila: un paio d’anni fa all’Ars, giunta e parlamento regionale si impappinarono per giorni già solo per capire il loro effettivo numero. Di certo è che ci sono paesini montani della Sicilia dove trovi anche un forestale su cinque abitanti o giù di lì. Lavorano per un tot di giorni all’anno pagati dalla regione, poi c’è l’Inps. Un anno fa Repubblica ne calcolava il costo in 250 milioni l’anno ma anche su questo dato non manca una certa fumosità tra le fonti.
I corposi investimenti profusi nella formazione professionale hanno creato poco lavoro (se non per i formatori stessi) e poca ricchezza
Evocati nella narrazione antimeridionalista come un archetipo del fannullone a spese della comunità, gli operai forestali sono in realtà un pezzetto, seppur costoso e corposo, di tutto quell’armamentario assistenzialista partorito negli anni in cui la regione “dava lavoro”, o meglio dava stipendi, visto che il privato qui boccheggia da sempre, soffocato da mille deficit infrastrutturali, malaburocrazia, fisco vorace e, ovviamente, criminalità organizzata. Per giunta, quando i rappresentanti degli industriali sono riusciti ad accomodarsi nelle stanze dei bottoni della Regione, la loro azione a conti fatti s’è tradotta in una abbondante occupazione di posti di potere spartiti all’interno di una piccola cerchia di sistema piuttosto che in tangibili benefici per il sofferente mondo delle imprese siciliane. Ma questa è un’altra storia, che fa da controcanto a quella della regione imprenditrice, mamma e matrigna dei disoccupati accolti nel suo grembo generoso, di quella regione che solo nelle sue società partecipate – quelle che da anni tutti i governi regionali giurano e spergiurano che chiuderanno, taglieranno, ridurranno, e sempre là stanno – ha settemila dipendenti, che diventeranno diecimila se all’anno nuovo la Resais imbarcherà i precari palermitani di cui si scriveva a principio dell’articolo. Quella stessa Resais che gestisce ancora 200 persone “in accompagnamento” (non sono dipendenti della partecipata, fanno capo a un fondo regionale e la società si limita a pagarli), cioè gente che sta a casa sua in attesa della pensione ricevendo puntuale ogni mese l’80 per cento dello stipendio (uno status eredità di tempi di vacche grasse di cui ormai i nuovi ingressi non potranno più beneficiare). Sarebbero potuti diventare quindicimila se oltre ai quasi tremila Pip, l’Assemblea a questo giro avesse imbarcato nella partecipata – come da più parti era stato richiesto – altri cinquemila ex disoccupati precari, i lavoratori Asu, da venti anni e passa sparpagliati in varie pubbliche amministrazioni.
E sì, un prototipo di “reddito di cittadinanza” in Sicilia ha avuto tanti nomi e tante facce ma non è esattamente una novità. Il sogno grillino è quello di estenderlo a tutti, proprio a tutti i disoccupati, senza un provvidenziale sponsor politico che possa poi metterci il cappello e camparci per un pezzo a suon di voti. Ma per farlo servono i soldi, certo. Poi, solo allora, si potrà adempiere la sicula massima che la tradizione attribuisce all’andreottiano Salvo Lima: “Quannu ’a pignata vugghi, av’a vùgghiri pi tutti”. Quando la pentola bolle, tutti devono poter mangiare.