Il governo e i rider, Di Maio guardi alla Carta di Bologna
La giunta del capoluogo emiliano ha sottoscritto il primo accordo europeo sul tema della gig economy. Punto fondamentale del percorso la negoziazione con tutte le parti sociali
Al direttore,
leggo sempre con molta attenzione i contributi sul Foglio, riconoscendo una particolare attenzione che il suo giornale ha voluto dedicare alla materia dei rider e al tema della gig economy.
Mi auguro che raccontare la genesi della “Carta di Bologna”, le sue disposizioni e le azioni che il Comune di Bologna ha scelto di assumere sul tema del lavoro digitale possa contribuire, nel suo piccolo, a promuovere una nuova cultura del lavoro digitale nel nostro Paese.
Il punto di partenza di questa storia è lo scorso Natale. I rider di Bologna, dopo aver costituito un’associazione sindacale di base che si chiama Riders Union, decisero di scendere in piazza Maggiore ed appendere le biciclette al gancio dell’albero di Natale per far conoscere alla comunità cittadina le loro condizioni di lavoro. Vennero ascoltati dal sindaco, Virginio Merola, e da lì si decise di avviare un percorso di conoscenza sul mercato della consegna di cibo a domicilio nella nostra città.
Dopo la mia nomina ad assessore al Lavoro ed alle Attività produttive avvenuta nel febbraio del 2018, insieme ai miei colleghi di giunta, ho deciso di convocare ad un tavolo i rider, le piattaforme digitali e le organizzazioni sindacali. Qualcuno ci ha chiesto: perché siete intervenuti? La risposta è semplice. Perché avremmo dovuto aspettare che qualcuno si facesse male? Le cronache riportano il tragico incidente di Milano dove un rider ha subito l’amputazione di una gamba, ma un incidente serio (e fortunatamente meno grave) era giù accaduto a febbraio dello stesso anno nella nostra città. Considerare i rider come lavoratori e collaboratori, prima ancora che ciclisti, significava far comprendere che incidenti di questo tipo vanno inquadrati come incidenti sul lavoro e non come meri sinistri stradali.
Perché avremmo dovuto aspettare che fossero i giudici a dover risolvere il tema della qualificazione giuridica del rapporto di lavoro? Era ancora in corso la causa Foodora a Torino che avrebbe poi in primo grado non riconosciuto il criterio della subordinazione per la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro. Sentenza peraltro controversa che può essere capovolta in appello o da altri giudici, ma che evidenzia un dibattito giuridico ampio su come gli indici classici di subordinazione facciano fatica ad adattarsi a fenomeni nuovi e complessi come l’economia della gig economy.
E infine, perché avremmo dovuto aspettare che fosse il legislatore nazionale a dover intervenire sulla materia? I tempi della politica rischiano sempre di essere distanti dai tempi di vita delle persone. È per questo che abbiamo scelto di agire, assumendoci le nostre responsabilità e negoziando con tutte le parti in merito all’esigenza di stabilire standard minimi di tutela (tra cui, compenso fisso minimo che sia equo e dignitoso, indennità integrative in caso di condizioni atmosferiche sfavorevoli, obblighi di assicurazione per i lavoratori e per i terzi, divieto di controllo a distanza, libertà sindacali, diritti e doveri di informazione) a prescindere dalla qualificazione giuridica del rapporto, ovvero sia che si tratti di lavoratori autonomo nelle forme del lavoro a partita Iva, di collaborazioni occasionali o di co.co.co, sia che si tratti di lavoratori subordinati.
Se l’algoritmo è il modo di organizzazione del lavoro nell’economia digitale, le strade sono il luogo fisico in cui questo lavoro si esercita. È lì che un’amministrazione locale può (rectius: deve) intervenire.
La “Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale nel contesto urbano” che, come ha sapientemente scritto Staglianò ha un titolo lungo degno di un film di Lina Wertmuller, aveva essenzialmente questi scopi. Promuovere la crescita delle piattaforme digitali, senza abbassare le tutele dei lavoratori. Squarciare il velo di ignoranza sulle condizioni dei lavoratori digitali perché tutti noi vedevamo sfrecciare i rider nelle nostre città, senza sapere quali fossero le loro condizioni, ovvero pensando ancora che fossero dipendenti delle pizzerie e non legati alle piattaforme digitali, dalle quali noi facciamo l’ordine di acquisto. Promuovere una nuova cultura del lavoro digitale perché se l’industria 4.0 parla alle imprese, manca un lavoro 4.0 che parli ai lavoratori.
La Carta di Bologna è stato il primo accordo europeo sul tema della gig economy, con un’applicazione sperimentale sul delivery food. Ma è solo il primo passo: si tratta ora di estenderlo alle piattaforme che non l’hanno ancora firmato (attraverso le leve degli incentivi/disincentivi e del consumo responsabile), di estenderlo ad altre città (ci sono interlocuzioni in corso, per esempio, con il comune di Milano) ed altre categorie di lavoratori digitali che sono in costante aumento e che sono molti di più dei rider di cui tanto si parla sui giornali. Non abbiamo semplicemente aperto nuovi spazi di contrattazione metropolitana tra imprese, lavoratori e organizzazioni sindacali. Abbiamo tolto l’alibi dell’insostenibilità economica di questi tipi di accordi. Se le disposizioni della Carta sono sostenibili economicamente per due piccole società italiane (come Sgnam e Mymenu che a Bologna coprono quasi la metà dei 500 rider) come possono non essere sostenibili per modelli di business che hanno fatturato nel 2017 oltre 600 milioni di euro di utili, a fronte di paghe per i lavoratori che in alcuni casi raggiungono i 5.60 euro lordi all’ora? Tolto il primo alibi rimane il secondo da rimuovere. L’idea che sia una lodevole iniziativa (questo il commento delle piattaforme che hanno partecipato al tavolo negoziale, ma che hanno deciso di non firmare la Carta) ma di carattere locale.
Sono lieto che il ministro Di Maio abbia deciso di inaugurare il suo dicastero occupandosi di questo tema perché “simbolo” della precarizzazione del mondo di lavoro. Ma se davvero vogliamo affrontare i rider non perché simboli, ma perché persone, perché lavoratori, il ministro può prendere le disposizioni della Carta, chiamare al tavolo i rider, le piattaforme, le organizzazioni sindacali, le amministrazioni comunali ed estenderlo ex lege a tutto il territorio nazionale. Così si toglierebbe alle piattaforme l’ultimo alibi che è rimasto, garantendo spazi di contrattazione metropolitana da declinare nelle specificità di ciascuna area urbana, sulla base di standard minimi ed uniformi di tutela. La strada della contrattazione metropolitana è quella che più si adatta a questo nuovo modello dell’economia. Perché non tutti i rider vogliano essere riconosciuti come lavoratori subordinati e perché non tutte le piattaforme pensano che la qualità dei propri lavoratori non debba essere parte integrante del proprio modello di business. Con il ministro Di Maio abbiamo profili diversi, ma condividiamo un’anagrafe comune: se riuscissimo a superare la logica della diversa appartenenza politica sarebbe un segnale nuovo di un’azione comune nell’interesse generale del paese. La Carta di Bologna è copyleft: a patto che oltre alle disposizioni, se ne prenda anche il metodo che ha visto nella negoziazione con tutte le parti sociali un punto fondamentale del percorso.
Infine, mi sia consentita una piccola postilla che questa storia potrebbe raccontare alla sinistra che vaga nel limbo di un’identità irrisolta, in cerca di idee e volti nuovi. Questa vicenda ci racconta che il tempo e lo spazio sono i fondamentali da cui ripartire. Ridare valore e dignità al tempo di vita delle persone e concepire lo spazio urbano non solo come luogo di erogazione delle prestazioni per i cittadini, ma come luogo di democrazia. Quando il partito democratico capirà che il 4 marzo è finito il renzismo e l’antirenzismo e ricomincerà ad ascoltare e dare risposta ai problemi veri dei cittadini avrà riacceso il motore del riformismo che oggi è spento.
Marco Lombardo
Assessore del comune di Bologna
tra debito e crescita