Sui rider e la gig economy la nuova soluzione del governo è una legge vecchia
Ai lavoratori servono stabilità, tutela del potere d’acquisto e accesso al credito. Ma ciò non vuol dire posto fisso e subordinato
E’ più forte di noi. La risposta ai cambiamenti o è una nuova legge, o non è. E’ quello che sta succedendo sulla tutela della categoria emergente dei cosiddetti gig-workers, i lavoratori delle piattaforme. Il governo ha proposto una regolamentazione che fa discutere, perché riconduce fenomeni nuovi all’interno di schemi novecenteschi e in buona parte superati dalla storia. Non entriamo nel merito giuslavoristico, ci limitiamo a scegliere un provvedimento simbolo all’interno delle bozze circolate: l’obbligo di negoziazione sindacale per ogni nuovo algoritmo. Fortunatamente, per ora, il ministro pare orientato a lasciar da parte la spinta alla decretazione per favorire un tavolo negoziale tra le parti. Decisione positiva se lascerà spazio a una riflessione più ampia. Perché mentre tutti si interrogano sulla ricetta legislativa migliore, nessuno si accorge che le innovazioni più grandi nel campo del welfare e delle tutele stanno arrivando proprio dal mercato. E che se solo lo stato, invece di normare, si fermasse a osservare, incoraggiare, indirizzare, le soluzioni al mondo che cambiano sarebbero già a portata di mano.
Un esempio? A maggio Deliveroo ha finalmente annunciato l’introduzione di un’assicurazione per tutti i suoi 35 mila fattorini in 12 paesi (1.300 in Italia). Coprirà, oltre agli infortuni sul lavoro ed eventuali danni a terzi, anche il mancato guadagno in caso di inattività temporanea. Un’azione arrivata tardi e forse ancora insufficiente, ma indubbiamente un passo in avanti. Come è stato possibile? Non grazie a una legge, ma a un’altra startup, in questo caso la belga Qover, specializzata in prodotti assicurativi innovativi. Qover dialoga con il software di dispaccio delle consegne, permettendo di attivare delle mini-polizze solo al momento necessario. Inoltre, l’uso minuzioso dei dati relativi sui singoli rider consente di effettuare la stima di un rischio, quello di mancato guadagno, tradizionalmente difficile da calcolare. Un esempio virtuoso di come la tecnologia e la spinta imprenditoriale arrivi prima e meglio a risolvere problemi collettivi. Basta conoscerla, incoraggiarla, indirizzarla.
Non è un caso isolato. Negli Usa, in particolare, sono molte le startup che hanno identificato nelle aree grigie create dall’esplosione della gig economy terreno fertile per portare innovazione. Tra queste Even, azienda che offre un’assicurazione sul reddito per i lavori a intermittenza; Sherpashare, che si rivolge specificatamente agli autisti di Uber e Lyft aiutandoli a ottimizzare i guadagni e offrendo servizi di assistenza fiscale; o Stride, che si occupa di garantire coperture mediche a lavoratori che nel sistema americano resterebbero altrimenti scoperti. Ciò che accomuna questi diversi tentativi è l’attenzione al fine – la (ri)costruzione di forme di welfare per nuovi tipi di lavoratori – e non al mezzo – l’inquadramento contrattuale.
Ripartiamo da qui, dal riconoscimento che il lavoro “subordinato” non piace in quanto tale, ma semplicemente perché associato a tutele superiori. Fin dal secondo Dopoguerra, infatti, lavoro dipendente/subordinato ha significato, e ancora significa, essenzialmente tre cose: stabilità (ed entro certi limiti sicurezza) di un reddito, accesso alla contrattazione collettiva per la protezione del potere d’acquisto e accesso al sistema finanziario e del credito che poggia a sua volta proprio sulla stabilità di reddito.
Il lavoro mediato dalle piattaforme tecnologiche esce da questo schema tradizionale e, in mancanza di un aggiornamento del welfare, crea inevitabilmente scompensi. Ma la soluzione è nell’offrire, in forme nuove, le tre tutele di cui sopra. Non nel tentare goffamente di ricondurre tutto al lavoro “subordinato”. Spostare le lancette della storia non è solo impossibile. E’ anche inutile: l’economia delle piattaforme rappresenta un nuovo paradigma, dove le economie di scala che avevano favorito la nascita dei grandi datori di lavoro del secolo scorso, lasciano il campo – o almeno una porzione crescente del campo – alle economie di network e agli scambi tra attori indipendenti.
Talvolta queste piattaforme ottimizzano servizi già esistenti, migliorandone la produttività, rendendole scalabili e facendole emergere dall’economia sommersa (ci preoccupiamo del pedalatore di Foodora, dimenticando che migliaia di pizzaioli o ristoranti cinesi mandano in giro da decenni fattorini in nero).
Altre volte invece le piattaforme sono più vicine a meri attori economici che estraggono una rendita, per alcuni troppo alta, dal loro ruolo di mediatori. Insistere sulla centralizzazione, cristallizzando tutto nel rapporto novecentesco padrone-dipendente, non fa che ritardare un processo di trasformazione dell’economia che invece va stimolato e accompagnato. E che porterà, se saremo in grado di osservare, incoraggiare, indirizzare, a forme ancor più decentralizzate, dove la maggior parte del valore creato sarà catturato da una parte dal consumatore finale (prezzi più bassi, servizio migliore), dall’altra dal prestatore di lavoro (flessibilità, autonomia e retribuzioni adeguate).
Le “startup del welfare” possono aiutare a segnare la strada, offrendo servizi e prodotti che, in modo nuovo, rispondono proprio al disegno originale nel nostro modello di stato sociale: favorire la stabilità economica del lavoratore, aumentarne il potere contrattuale, e permetterne l’accesso al credito.
Governi moderni devono avere il coraggio di fare un passo verso l’alto e uno di lato: riequilibrare i rapporti di forza tra piattaforme sovranazionali e rider iperlocali, garantire accesso ai dati dei rider per favorire l’innovazione dei servizi, favorire l’interoperabilità delle piattaforme a vantaggio dei riders. Guardando al fine, i diritti, e non a un solo mezzo, il contratto.
Non va più di moda dire che il mercato ci salverà. Ma se a farlo deve essere il governo, che almeno sia un governo con strumenti adeguati. Prendendoli anche dal mercato.
Francesco Luccisano e Stefano Zorzi