Guerra commerciale
Per l’Italia, il ricorso a un maggiore protezionismo si rivelerebbe una strategia fallimentare
Si può dire che una guerra commerciale tra Unione europea e Stati Uniti sia ormai iniziata? Le contromisure adottate da Bruxelles il 20 giugno scorso, in risposta all’aumento dei dazi imposti da Washington sulle importazioni dall’Europa di acciaio e alluminio, non porteranno forse a una nuova ondata di protezionismo (almeno nel breve periodo), ma hanno rappresentato senza dubbio il primo livello di un’escalation che, come la teoria dei giochi bene insegna, potrebbe portare a conseguenze nefaste non solo per le economie direttamente coinvolte, ma anche per il resto del mondo.
Cosa ci si deve aspettare dal dialogo dei leader in tema di politiche commerciali, nei giorni del Consiglio europeo? Sebbene sia poco realistico attendersi decisioni risolutive della crisi in atto con gli Stati Uniti, sarebbe quantomeno auspicabile puntare a una dichiarazione congiunta degli stati membri volta a riaffermare l’importanza del libero scambio e la consapevolezza che una “guerra dei dazi” non può che arrecare danni all’economia internazionale. Peraltro, è bene sottolineare che le tariffe non sono che la punta dell’iceberg delle misure di difesa commerciale, che spesso sono più sottili in quanto sono di tipo fitosanitario o regolamentare o solo di pratiche unfair, raggiungendo lo scopo ma senza provocare il “frastuono mediatico” causato dalle barriere tariffarie. Senza contare che tali politiche hanno spesso effetti distorsivi indiretti per l’industria e l’agricoltura nazionali, dall’aumento del costo dei prodotti da trasformare alla scelta di delocalizzare all’estero come dimostra il caso Harley Davidson.
Allo stesso modo, non vanno però sottovalutate le pratiche scorrette che, strumentalizzate dalla retorica dei governi sovranisti, finiscono per fornire giustificazioni ai detrattori del libero commercio. La manipolazione del tasso di cambio per ottenere le cosiddette “svalutazioni competitive”, le grandi multinazionali che sfruttano il commercio online per evadere il fisco, il dumping messo in atto da economie che non disdegnano di usufruire ancora dei privilegi forniti dallo status di “paese in via di sviluppo” quando in realtà sono ormai delle superpotenze globali, sono pratiche che vanno senza dubbio ridimensionate al fine di creare quel terreno omogeneo dove tutti i giocatori possono confrontarsi ad armi pari. Ecco perché l’Unione europea deve evitare di farsi trascinare in un pericoloso gioco al rialzo con gli Stati Uniti di Donald Trump, il quale vuole probabilmente alzare la posta per cercare di ottenere risultati sorprendenti come l’inizio di una trattativa con la Corea del nord senza probabilmente rendersi conto che l’Europa non è Pyongyang. L’enorme surplus commerciale vantato dall’Ue nei confronti degli Stati Uniti lascia un discreto margine di manovra che può portare anche a una sorta di appeasement nei confronti di Washington, che non del tutto a torto vuole riequilibrare la propria bilancia commerciale.
Se il ricorso a un maggiore protezionismo può avere qualche fondamento da parte statunitense, dal punto di vista dell’Italia si rivelerebbe invece una strategia fallimentare e l’uscita dai trattati di libero scambio come quello con il Canada, il Ceta, causerebbe danni ingenti ai nostri esportatori di generi di alta qualità che verrebbero scalzati da altri meno pregiati e perderebbero per sempre fette di mercato. Il premier Conte dovrà tenere presente che l’Italia è la seconda potenza manifatturiera dell’Unione e che ha margini di potenzialità da non sacrificare sull’altare di confronti che si tingono di connotati ideologici e politici. Il fine ultimo dovrebbe essere l’ulteriore aumento delle nostre esportazioni, vera leva trainante della crescita economica italiana, per raggiungere l’obiettivo di un export pari al 50 per cento del nostro Pil.