Cdp, nostra signora delle salvezze
Non piace a tutti l’idea del governo di usare la Cassa depositi e prestiti per soccorrere le aziende in panne
L’Alitalia alla Lufthansa, cioè a Frau Merkel? E perché mai, tanto c’è la Cassa. L’Ilva agli indiani? Non siamo mica matti: o la chiudiamo o ci pensa la Cassa. I cantieri navali ai francesi? Ma no, ce li teniamo stretti, sempre grazie a lei, la Cassa. Nostra Signora della Salvezza è pronta a intervenire quando qualcuno vuole ammainare il tricolore in nome dell’apolide mercato che poi nasconde quel complesso pluto-giudaico-massonico il cui obiettivo è svendere il Bel Paese. No pasaran. Nostra Signora fa la guardia dalla fortezza romana di viale Goito che difende il fianco destro di palazzo Sella dove sta asserragliato il Tesoro. Ma il nuovo governo non vuol farne solo una roccaforte dell’italianità. No, l’intenzione è di trasformarla nel braccio armato dello stato pronto a intervenire ogni qual volta emerga un “fallimento del mercato”.
Non solo roccaforte di italianità. La si vorrebbe come braccio armato dello stato ogni qual volta emerga un “fallimento del mercato”
Non tutti sono d’accordo, nemmeno tra i gialloverdi. Anche per questo è diventata così importante la nomina dei nuovi vertici, slittata oltre la naturale scadenza di giovedì scorso, 28 giugno. Se ne riparla il 13 luglio. L’assemblea ha approvato l’ultimo bilancio di Claudio Costamagna e Fabio Gallia, con un aumento degli utili del 33 percento per un totale di 2,2 miliardi e un dividendo di un miliardo e 345 milioni, poi è stata sospesa in attesa di un’intesa sul giro di poltrone. Le fondazioni di origine bancaria, alle quali spetta il presidente, hanno indicato Massimo Tononi, già prodiano e ora banchiere d’affari alla Goldman Sachs. Lo scontro è sull’amministratore delegato e sul direttore generale. Candidato ideale sarebbe Dario Scannapieco, dal 2007 vicepresidente della Bei, la Banca europea degli investimenti, e prima direttore generale finanza e privatizzazioni per anni al ministero del Tesoro. A Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti, plenipotenziario per gli affari economici, piace Massimo Sarmi, l’ex presidente delle Poste, ma pensano anche a Giuseppe Bonomi, l’ex capo degli aeroporti milanesi, mentre Luigi Di Maio vuole un proprio baluardo e si è orientato verso l’attuale direttore finanziario Fabrizio Palermo con il rischio di dimezzare i poteri dell’ad. Tra gli aspiranti c’è anche Giuseppe Bono, il gran capo di Fincantieri, manager tosto e boiardo di vecchia data. Ma la questione chiave è tutta interna agli equilibri tra Lega e M5s.
Piazzati gli uomini giusti al posto giusto, il governo intende estendere la missione della Cdp. L’azionista in teoria è il Tesoro, dunque l’ultima parola spetta a Giovanni Tria, ma saprà imporsi ai dioscuri del governo? Perché la Cassa piace talmente a grillini e leghisti che adesso ne vogliono due, la prima per finanziare gli enti locali e la seconda per presidiare se non ri-nazionalizzare le imprese ritenute strategiche. Il centrosinistra ne ha già allargato parecchio i confini e non sempre in modo lineare. Non solo è stata assorbita la Saipem per evitarle il collasso e alleggerire l’Eni, ma il governo Renzi ha coinvolto la Cdp in operazioni “di sistema” che sono ai limiti della sua vera natura; per esempio il fondo Atlante che doveva salvare le banche (e non solo quelle venete) oppure l’operazione banda larga con Open fiber, insieme all’Enel. Atlante è stato un disastro e la Cdp ha impiegato mezzo miliardo di euro, quanto a Open fiber adesso la prospettiva sarebbe di farla confluire in una nuova società, una volta scorporata da Tim la rete telefonica. Per ora è un progetto, anzi un desiderio, tuttavia per presidiarlo la Cassa è diventata azionista di Tim, dove intende controbilanciare Vivendi aiutando il fondo americano Elliott e magari aprendo le porte a una alleanza con Mediaset. I puristi diranno che nemmeno questo ha molto a che fare con il mestiere della Cdp.
Approvato l’ultimo bilancio di Costamagna e Gallia, con un aumento degli utili del 33 per cento e un dividendo di 1,3 miliardi
Nata nel 1850 per finanziare i comuni nel Regno di Sardegna, il suo grande vantaggio è sempre stato la garanzia statale sui depositi, che riuscì a creare ulteriore risparmio rispetto a quello bancario, coinvolgendo le Poste. I buoni postali attrassero anche i risparmiatori più timorosi e portarono nel circuito finanziario i quattrini nascosti sotto i materassi o dentro pentole seppellite nell’orto (come avveniva allora a causa della poca fiducia nelle banche e come può sempre succedere di nuovo, magari in forme più sofisticate, se quella fiducia viene a mancare). Con la garanzia pubblica si resero disponibili risorse per investimenti in infrastrutture, raccolte a costi inferiori a quelli di mercato. Tra gli impieghi prevalsero i mutui ai comuni per strade, edifici scolastici, sistemi fognari, opere igieniche, e per la ristrutturazione del debito degli enti locali verso istituti di credito. La Cdp gestisce oggi circa 250 miliardi di risparmio postale ai quali s’aggiungono altri tre miliardi di attività industriali. Per avere un’idea delle dimensioni, si pensi che il suo bilancio è dieci volte quello di Unicredit e Intesa Sanpaolo messe insieme. Lo stato ne possiede oltre l’82,7 per cento, il capitale restante è detenuto da un folto gruppo di fondazioni, dalle più grandi come Cariplo e Sanpaolo alle più piccole, come quella di Volterra che ha in portafoglio appena lo 0,016 per cento, un nonnulla, ma quanto basta.
Rimasta sempre la stessa per un secolo e mezzo, la Cdp ha cambiato pelle tre volte negli ultimi quindici anni. Nel 2003, è diventata una società per azioni di diritto privato, lo ha deciso il ministro del Tesoro Giulio Tremonti, coinvolgendo le fondazioni di origine bancaria come azioniste di minoranza. In questo modo, è uscita dal perimetro del debito pubblico. Poi, tra il 2006 e il 2009, con una serie di interventi, ha ampliato il suo raggio d’azione investendo soprattutto sul mercato. Nel 2015, entrata nel piano Juncker di investimenti europei, ha assunto lo status di Istituto di promozione nazionale.
Nella vecchia Cdp una paratia stagna divideva due diverse modalità di operazioni. La prima, quella originaria, è la cosiddetta “gestione separata”, che consiste nel girare agli enti locali i quattrini che i cittadini investono in buoni fruttiferi o in libretti postali. Al momento il 98 per cento dei mutui sottoscritti da comuni e regioni è stato concesso dalla Cassa. La tenuta finanziaria del comune, alla fine è garantita dallo stato centrale, alla faccia dell’autonomia e della devolution. Se il comune entra in dissesto e non può più ricevere il prestito, il Tesoro copre la perdita e la Cdp non perde il suo investimento. Così facendo, però, aumenta il debito pubblico. Sono in molti, dunque, a mettere in discussione l’escamotage grazie al quale le risorse della Cassa non sono debito statale.
Accanto a quella “separata” c’è poi la “gestione ordinaria”, che un tempo era completamente scissa dal risparmio dei cittadini. Consiste nel fare consulenze, investire in società, acquistare quote di fondi e così via. Per statuto, non ha come obiettivo di aumentare i profitti, bensì deve aiutare l’economia del paese. I cambiamenti degli ultimi dieci anni hanno assottigliato il confine tra le due attività, aumentando i rischi. In pratica, la Cassa impiega parte del risparmio postale, più quello che raccoglie emettendo obbligazioni proprie e la quota conferita dal Tesoro, per acquistare partecipazioni societarie. Ce ne sono decine in portafoglio: le Poste, l’Eni, la Snam, Terna, tanto per fare alcuni esempi. A uno dei suoi bracci operativi, la Cdp Equity, già Fondo strategico italiano, fanno capo Ansaldo energia, Open fiber, Saipem, Rocco Forte hotels, Trevi, Valvitalia, Fsi investimenti e Fsia investimenti. Il tutto per circa tre miliardi che nel 2016 hanno prodotto una perdita cumulata di 185 milioni.
Difficile dimostrare che corrispondano a questa missione strategica interventi come quelli nel gruppo alberghiero inglese Forte, con la scusa che l’Italia ha vocazione turistica; nella Cremonini, con la giustificazione che la filiera della carne è anch’essa “strategica” per il settore agroalimentare; nella Trevi, un’azienda di ingegneria; nella Sia, società di servizi bancari, e così via. Si fa fatica a comprendere la logica, “a meno che – come ha scritto l’economista Francesco Giavazzi – essa non consista nel fare le medesime scelte che farebbe un investitore privato ma con l’immenso vantaggio di una raccolta che non costa quasi nulla perché garantita dallo stato, e di un azionista, sempre lo stato, che non esige rendimenti particolarmente elevati”. Proprio la particolare natura di questo ircocervo un po’ pubblico un po’ privato, permette al governo di spostare nella Cdp le partite che sarebbero a carico del debito pubblico. Un esempio classico riguarda due società partecipate dallo stato, Fintecna e Sace, che nel 2012 sono state trasferite alla Cassa per 10 miliardi di euro, utilizzati a loro volta per ridurre il debito pubblico. In realtà, una specie di partita di giro perché lo stato prendeva i soldi con una mano e li restituiva con l’altra.
Per i nuovi vertici, lo scontro è sull’amministratore delegato e sul direttore generale. Tra i papabili Sarmi, Bonomi, Palermo
L’Italia non è l’unico paese a praticare questa ginnastica contabile tollerata dalla Commissione europea: in Francia la Cdc e in Germania la KfW fanno lo stesso. La Caisse des dépots et consignations è stata creata nel 1816 per finanziare il Tesoro (ad essa si ispirò il Regno di Sardegna per la Cdp) e la Kreditanstalt für Wiederaufbau (banca della ricostruzione), è nata nel 1948, per volere degli Stati Uniti d’America, con il compito di gestire i fondi del Piano Marshall. Il suo attivo sfiora i 500 miliardi di euro, circa il doppio della Cassa depositi e prestiti. L’80 per cento del capitale è detenuto dal governo federale mentre il restante 20 per cento è dei Länder. Alla KfW fanno capo i pacchetti di controllo di Deutsche Telekom e Deutsche Post. La Caisse resta un ente pubblico che controlla gruppi come France Télécom e anche un gran numero di pacchetti azionari in aziende private. Nessuno dei due soggetti stranieri ha azionisti esterni al perimetro pubblico.
Tremonti ha convinto Giuseppe Guzzetti, il grande capo delle fondazioni di origine bancarie, a prendere il 19 per cento diviso in piccole quote, non solo per garantirsi che l’Unione europea non considerasse gli interventi della Cdp come aiuti di stato, ma anche per tenere a una certa distanza la politica. Lo statuto impone un vincolo dell’85 per cento su ogni scelta strategica, il che obbliga il coinvolgimento delle fondazioni. E’ vero che i loro organismi dirigenti vengono nominati dagli enti locali, quindi la politica rientra da molte finestre, ma in ogni caso introduce un bilanciamento, un gioco di pesi e contrappesi.
Nonostante quello che si sente dire, la Cdp non è un fondo sovrano tipo quello norvegese, non è una banca d’investimento né una nuova Iri
Nonostante quel che si sente dire, la Cdp non è un fondo sovrano tipo quello norvegese, non è una banca d’investimento e non è una nuova Iri. L’Istituto per la ricostruzione industriale veniva finanziato ogni anno con un fondo di dotazione pubblico, votato dal Parlamento. Il suo compito era ben diverso e tra l’altro aveva una scuola di management industriale di prim’ordine. Questa è una differenza essenziale, quanto meno dall’Iri del dopoguerra, perché l’istituto originario pensato da Raffaele Mattioli e fondato da Alberto Beneduce doveva essere uno strumento temporaneo per aiutare le imprese colpite dalla grande crisi del 1929 a risanarsi e poi collocarle di nuovo sul mercato.
La Cassa deve intervenire in imprese di “rilevante interesse nazionale”, ma che non siano in rosso, l’obiettivo è lo sviluppo non il salvataggio. Su questo finora hanno vigilato (anche se non sempre in modo occhiuto) le fondazioni le quali non hanno nessuna intenzione di farsi carico di perdite non desiderate e in questi anni hanno fatto in modo di intascare dei buoni dividendi anche in anni di vacche magre, grazie al differenziale sempre positivo tra tassi attivi e passivi, che distingue la Cdp dalle banche vere e proprie. La definizione di azionisti “privati” per molti versi appare una foglia di fico visto che le fondazione bancarie non operano con criteri di mercato. Tuttavia, la loro presenza è essenziale perché, fosse anche con una sola azione, esse evitano che il bilancio della Cassa sia consolidato nei conti dello Stato. Se ciò accadesse il governo non potrebbe più “privatizzare” aziende pubbliche, come ha fatto con Eni ed Enel, semplicemente spostandone il possesso dal ministero dell’Economia alla Cdp. In secondo luogo, senza il consenso delle fondazioni non si può cambiare nulla di sostanziale.
Per usare la Cassa anche per risolvere crisi industriali – come nel caso dell’Ilva – bisogna riscriverne lo statuto. Il contratto Lega-Cinque stelle lo fa intendere chiaramente. Il governo dovrebbe estromettere le fondazioni o convincerle obtorto collo ad accettare una modifica. Guzzetti, però, è stato molto netto con il Corriere della Sera: “La Cassa non deve diventare un mezzo per risolvere qualsiasi crisi industriale. Se si vogliono fare cose strane, come si è tentato per Alitalia, ci opporremo in tutti i modi. Il risparmio degli italiani non si può mettere a rischio. Ricordo che da statuto abbiamo il voto di blocco e, se non bastasse, lo strumento del recesso”. Dunque, l’ex politico democristiano diventato banchiere, l’ultimo dei grandi vecchi rimasti sulla scena della finanza, ha minacciato esplicitamente una rottura che sarebbe catastrofica per il governo e per il paese.
Giunto ormai a 81 anni, dopo aver portato la Cariplo, la ricca Cassa di risparmio delle province lombarde, al matrimonio con Giovanni Bazoli per creare il gruppo Intesa, Guzzetti lascerà tra un anno; non si sa chi lo sostituirà, tuttavia fino ad allora avrà un potere di blocco inattaccabile. Può essere aggirato creando una banca d’investimento, una Mediobanca di stato? Non basta cambiare lo statuto, bisogna tirar fuori un bel pacco di miliardi per dotare il nuovo soggetto del capitale necessario a rispettare i requisiti patrimoniali stabiliti dalle Bce che a quel punto eserciterebbe la sua funzione di vigilanza anche sulla Cdp. Di quattrini il governo non ne ha, né Tria può stampare moneta a questo scopo. E’ vero che la Cassa attinge a un grande bacino di risparmio privato, come abbiamo visto, però il patrimonio netto consolidato è di 35 miliardi e non può certo bruciarlo in operazioni dissennate. La Cdp, in un anno, ha dato all’economia italiana tra interventi diretti e indiretti trenta miliardi che hanno attivato investimenti per altri venti. Niente male, ma una goccia nel mare dei sogni gialloverdi. Può fare di più? Forse, però deve avere più capitale. Siamo sempre lì. Hic Rhodus hic saltus, ma oggi come oggi è un doppio salto mortale.