La transizione impossibile
Non è soltanto pericoloso dire di lasciare l’euro, è proibitivo iniziare a provarci
Il dibattito sull’uscita dall’euro, tornato pericolosamente alla ribalta, ruota intorno a due questioni. La prima è quella dei pro e contro di un’ Unione monetaria. E’ un argomento collegato all’annosa e mai risolta questione del se l’Europa sia un’area monetaria ottimale. La seconda è quella delle conseguenze dell’uscita dall’euro che secondo quasi tutti gli economisti provocherebbe una grave crisi bancaria, un’impennata dell’inflazione e un default del debito pubblico, con forti effetti depressivi sull’attività economica, dato che il debito è detenuto per il 70 per cento da investitori italiani. I fautori dell’uscita sostengono invece che recessione e inflazione sarebbero o poco probabili, o di breve durata o facilmente rimediabili con massicce iniezioni di liquidità da parte di una banca centrale nazionale finalmente libera da vincoli europei. In ogni caso costituirebbero il prezzo necessario da pagare per recuperare la sovranità monetaria.
Il ministro Savona flirta con il “Piano B”. Ma anche lui, come altri, sottovaluta la complessità insormontabile dell’operazione
C’è però una terza dimensione del problema, quella della complessità e i tempi della creazione di una nuova moneta. Era stata trattata solo in alcune pubblicazioni dei fautori dell’uscita dall’euro ed è ora venuta alla ribalta nel famoso “Piano B” di Scenari economici promosso da Paolo Savona, attuale ministro per gli Affari europei, che ieri è tornato di nuovo sul tema in audizione presso le commissioni Ue di Camera e Senato. “Dobbiamo essere pronti a ogni evento – ha detto – in Banca d’Italia ho imparato che non ci si deve preparare a gestire la normalità ma l’arrivo del cigno nero, lo choc”. E a proposito del “Piano B” ha aggiunto: “Mi dicono: ‘tu vuoi uscire dall’euro?’ Badate che noi potremmo ritrovarci nella situazione in cui sono altri a decidere. Per questo dobbiamo essere pronti a ogni evento”.
In tutti questi studi la complessità del problema è drammaticamente sottovalutata. La nuova moneta verrebbe introdotta con un decreto governativo preso durante un weekend (il referendum sull’euro spesso sostenuto da Beppe Grillo è ormai giustamente considerato pericolosissimo perché destabilizzerebbe mercati e banche prima ancora di conoscerne l’esito) ed entrerebbe in circolazione il lunedì successivo, o dopo qualche giorno di bank holiday. Per evitare che il pubblico si precipiti a ritirare euro dai conti bancari o che si colleghi ai conti online per trasferire immediatamente i soldi all’estero, il governo introdurrebbe restrizioni sui prelievi dai conti bancari e controlli sui movimenti di capitale. Si riconoscono l’impopolarità e il costo economico di queste misure che però si ritiene potrebbero essere mantenute in vigore solo per pochi giorni. Dovrebbero anzitutto essere introdotte nuove monete ma visto che in Italia quelle in euro sono circa 16 miliardi (per un valore di 4,5 miliardi di euro) e produrne di nuove sarebbe un’operazione costosissima, si propone di continuare a usare quelle oggi in circolazione. La speranza è che non vengano tesaurizzate da cittadini spaventati dal ritorno a una valuta nazionale il cui valore sarebbe molto probabilmente, almeno all’inizio, in caduta libera. Più complicato e urgente sarebbe il problema della sostituzione delle vecchie con le nuove banconote. Di quelle in euro ne circolano circa 4 miliardi (per un valore di quasi 150 miliardi). Quale organizzazione logistica e quali sistemi di sicurezza dovrebbero essere messi in piedi per ritirarle? E quanto tempo richiederebbe questa operazione? Avviare in produzione in tempi ragionevoli una nuova serie di banconote è poi una questione molto complessa, dati gli avanzati requisiti che le moderne banconote devono soddisfare per minimizzare i rischi di contraffazione. Nel “Piano B” si parla di tre-sei mesi senza alcuna indicazione di come si arrivi a questa stima.
In economia i problemi del passaggio da un equilibrio all’altro non possono essere sottovalutati, come notava anche il ministro Tria
Ma la creazione di nuovi mezzi monetari, pur di non facile soluzione, non è il problema principale. Un sistema monetario moderno si avvale di enormi infrastrutture informatiche per la circolazione delle informazioni e degli ordini riguardanti incassi e pagamenti. Oggi tutti i paesi europei usano il sistema Target2 della Banca centrale europea, e hanno dismesso da più di dieci anni i sistemi nazionali. Target2 non potrebbe mai essere utilizzato da un paese uscito dell’euro perché non tratta valute diverse dall’euro. Non poter accedere a quella che è l’arteria portante della circolazione monetaria significherebbe bloccare un flusso di pagamenti di decine di miliardi di euro al giorno. Come ho illustrato in un working paper per la School of European Political Economy pubblicato nel 2017, l’Italia si troverebbe privata del sistema nel quale confluiscono, per il regolamento finale, tutte le principali operazioni in cambi e di compravendita di titoli. Il paese finirebbe per isolarsi dai mercati internazionali dai quali trae la linfa vitale per il suo commercio con l’estero e per garantire condizioni di liquidità al mercato dei titoli di stato. Il punto più importante è la durata di questa transizione. Non è minimamente immaginabile che la creazione di una nuova moneta e di un nuovo sistema dei pagamenti possano essere fatte in gran segreto, come ipotizzato dai sostenitori dell’uscita dall’euro. E’ un progetto le cui finalità andrebbero necessariamente condivise con un numero ampio di addetti ai lavori, con autorità italiane e internazionali, rappresentanti delle banche e degli altri utenti del sistema, da coinvolgere nei test di affidabilità delle nuove procedure. In tutto questo periodo il rischio di una fuga di notizie sarebbe elevatissimo. Le restrizioni all’acceso del pubblico ai conti bancari e i controlli sui movimenti di capitali dovrebbero dunque essere mantenuti per tutta la durata dei lavori preparatori. Sicuramente non è una questione di pochi giorni o anche di pochi mesi. Poche misure hanno un effetto così dirompente sull’economia di un paese e sulla società come impedire al pubblico di prelevare i soldi dai propri conti e restringerne l’utilizzo. Durante la crisi Argentina a dicembre del 2001, il famoso corralito, provocò saccheggi e disordini che causarono molte vittime e una grave crisi politica. Nel giro di tre settimane si succedettero cinque presidenti. In Argentina però i danni furono limitati perché esisteva una moneta nazionale, il peso, che affiancava il dollaro e un circuito di pagamenti per peso e dollari. Molto più raro è il caso di cambiamento delle banconote in circolazione da un giorno all’altro, senza preavviso. Lo ha fatto di recente l’India, dove l’8 Novembre del 2016 il primo ministro Narendra Modi, con l’intento di colpire l’economia informale e le attività illecite, ha messo fuori corso le banconote di importo più elevato, nel giro di un weekend, obbligando la popolazione a sostituirle con altre di nuovo formato da prelevare in banca. L’operazione fu costellata da molti inconvenienti e disagi che provocarono decine di vittime.
Dovrebbero essere introdotte nuove monete. In Italia quelle in euro sono 16 miliardi. Produrne di nuove sarebbe costosissimo
I fautori dell’uscita dall’euro sostengono che gli inconvenienti potrebbero essere minimizzati promuovendo l’uso di strumenti alternativi, come gli assegni bancari e la moneta elettronica. Ma la propensione degli italiani a usare strumenti diversi dal contante è, dopo quella dei greci, la più bassa in Europa (100 operazioni procapite nel 2016 contro una media di 231 dell’area dell’euro) e le abitudini in questo campo sono le più lente a cambiare. Si troverebbero fortemente disagiati gli strati più deboli della società, gli anziani, le micro-imprese, i piccoli esercizi commerciali, le regioni del sud più di quelle del nord. Rappresenterebbe un ulteriore duro colpo alla grande e piccola distribuzione commerciale a tutto vantaggio dei giganti delle vendite online, come Amazon. Per non parlare poi dei costi per le imprese della reintroduzione di controlli ai movimenti di capitali e il fiorire di attività illecite che ne seguirebbe, come purtroppo insegna l’esperienza italiana degli anni settanta e ottanta. Non si possono dunque non accogliere con sollievo le recenti dichiarazioni di fedeltà all’euro da parte dei nuovi rappresentanti di governo e l’atteggiamento pragmatico del nuovo ministro delle Finanze, Giovanni Tria. “La linea del governo è che l’euro non è in discussione”, ha detto e poi, ieri all’Assemblea Abi, ha ribadito che l’idea di “rafforzare l’Unione monetaria è condivisa” pur con modalità diverse. In un suo articolo sul Foglio del 2013 – pur riferito ad altri argomenti – sosteneva che “i problemi relativi al passaggio da un equilibrio all’altro… non possono essere risolti soltanto scrivendo qual è l’equilibrio desiderato e come sia migliore di quello esistente”, ma vanno anche considerati i problemi di transizione. Perché la rinnovata fedeltà all’euro venga tuttavia ritenuta credibile, soprattutto se pronunciata da chi fino a pochi mesi faceva dell’uscita dall’euro un cavallo di battaglia, non bastano le sole dichiarazioni. Sono necessari atti immediati per rincuorare i mercati circa la volontà di proseguire lunga la strada volta a ridurre il debito. E andrebbero anche accantonati i programmi di creazione di mini-bot o di altre forme di mete parallele che farebbero subito dubitare di queste conversioni europeiste dell’ultimo minuto.
Franco Passacantando è Senior fellow alla LUISS School of European Political Economy di Roma