Effetto dazi e il caso Alcoa. L'incognita Wall Street
La società americana ha annunciato il taglio delle stime di crescita. Intanto i mercati sono condizionati dai timori per l'incertezza politica e commerciale
Quello di Alcoa, il più grande produttore di alluminio americano con ricavi per circa 14 miliardi di dollari, potrebbe essere il primo caso lampante degli effetti negativi nella sfera “domestica” della politica protezionistica inaugurata da Donald Trump. La società ha dovuto tagliare le previsioni di crescita facendo crollare il titolo di oltre il 5% nel dopo mercato di Wall Street del 18 luglio sostenendo che “continua a esserci incertezza nella catena globale delle forniture a causa delle tariffe americane e dei problemi nella fornitura di alluminio nella regione dell'Atlantico”. Alcoa acquista buona parte dell'alluminio che lavora negli Stati Uniti in Canada, dove Trump ha imposto tariffe del 10% sull'ingresso della materia prima. I conti sono arrivati dopo la chiusura dei mercati, il gruppo ha terminato la seduta di ieri in ribasso dello 0,1% a quota 47,96 dollari ad azione.
Come reagirà la Borsa americana oggi (e a ruota i listini europei, che hanno aperto quasi tutti in territorio positivo ma senza particolare entusiasmo) è tutto da vedere anche perché a Wall Street sembra resistere il clima euforico per i conti record dei grandi gruppi come PepsiCo e Morgan Stanley. Ma Alcoa potrebbe essere una prima crepa nel muro di certezze di chi ritiene che i timori di una guerra tariffaria siano ormai già stati scontate e superati dai mercati azionari. A supporto di questa tesi, la calma piatta, tranne rare eccezioni, che da diversi giorni ormai regna sulle Borse europee, come da tradizione del periodo estivo, la sostanziale tenuta delle borse asiatiche e i balzi del listino Usa che si gode, appunto, le trimestrali dei suoi colossi e le previsioni positive dell’economia americana.
Ma come stanno le cose effettivamente? Le analisi degli operatori propendono per una strategia difensiva dei portafogli degli investitori, il che equivale a dire che una certa preoccupazione esiste. Anzi, per Bank of America Merrill Lynch, più che una preoccupazione si tratta di una certezza visto che dal sondaggio mensile tra i fund manager viene fuori che nelle prime settimane di luglio ben il 60 per cento (rispetto a circa il 30 per cento del mese di giugno) ha dichiarato di temere una “trade war”, una guerra commerciale, che possa avere effetto direttamente sull’area europea, per la quale è atteso anche un aumento dell’inflazione.
Ma c'è anche chi ritiene sia esagerato parlare di guerra commerciale. Secondo l’analisi del centro studi di Moneyfarm, le misure protezionistiche, almeno per ora, hanno riguardato un numero limitato di mercati e di tratte rispetto alla totalità degli scambi a livello globale. Per quanto riguarda l’Unione europea, i dazi imposti su alluminio e acciaio coinvolgono meno del 3% del totale delle esportazioni verso gli Stati Uniti (meno dell’1 per cento dell’export totale). E se guardiamo al paese americano nel suo complesso, il suo peso sul commercio globale è attorno al 12 per cento, cifra rilevante ma che dimostra come il libero scambio oggi viva. Ciononostante la stessa Moneyfarm conviene sul fatto che l’incertezza sulle politiche protezionistiche renda l’amministrazione Trump “un partner negoziale meno credibile, con un effetto negativo sulla business confidence a livello globale”.
In ogni caso, la guerra dei dazi rappresenta uno dei due principali temi su cui i mercati finanziari stanno focalizzando (e focalizzeranno nelle prossime settimane) la loro attenzione, insieme con l’instabilità politica del vecchio continente. Sempre Moneyfarm spiega che nell’ultimo mese, infatti, l’incertezza in questo senso in Europa e nel Regno Unito “ha avuto un progressivo aumento di intensità”. E aggiunge: “Se da un lato i mercati erano già a conoscenza dell’inedito governo Lega-M5s, e quindi consapevoli dell’insicurezza della direzione che l’Italia possa prendere all’interno dell’Unione, dall’altro rappresentano una novità l’instabilità del governo tedesco e la necessità della Germania di trovare una dialettica più solida tra i membri della sua coalizione”.