La Cgil al bivio
Il sindacato guidato da Susanna Camusso detesta Matteo Salvini e guarda con interesse alle mosse del Movimento 5 stelle. Temendone l’Opa
Come intende rapportarsi la Cgil al governo gialloverde e come è intenzionata ad avvalersi – pro domo sua – delle contraddizioni sempre più evidenti tra i due sottoscrittori del “contratto’’? A stare all’apparenza si potrebbe quasi pensare che la confederazione di Susanna Camusso usi il principio canonico di valutare l’esecutivo sulla base dei fatti e delle iniziative. Infatti, mentre ha espresso considerazioni prudenti ma tutto sommato benevole sul decreto dignità, la segretaria della Cgil ha stupito gli osservatori con una dichiarazione critica su quanto è previsto in tema di pensioni. “Va ricostruito un sistema equo. Diciamo con molta nettezza a questo governo – sono parole di Susanna Camusso – che il tema non è solo cosa succede alle persone che sono vicinissime alla pensione. Anzi, paradossalmente è la questione meno rilevante.
Il tema è se per tutti si definisce una certezza previdenziale” con “regole comprensibili” che hanno a che fare con la condizione lavorativa e soggettiva delle persone’’. Camusso ha aggiunto che in una scala di priorità, la prima è “avere un sistema previdenziale per le giovani generazioni”. Se non si parte dai giovani, ha spiegato, nessun sistema potrà essere equo. Ha poi bocciato la proposta di quota 100 contenuta nel contratto di governo Lega-M5s, perché “parla agli operai dell’industria del nord e a una parte del lavoro pubblico. Non parla a nessuna categoria del disagio”, soprattutto alle regioni del Mezzogiorno’’.
La Cgil può fare tutti gli scioperi generali che vuole, ma non può restare a lungo priva di riferimenti di natura politica
Si direbbe, quasi, che siamo in presenza di una svolta radicale, soprattutto nei confronti di quelle pensioni di anzianità (prerogativa dei lavoratori maschi, sindacalizzati, residenti nelle regioni del nord) che la confederazione di Corso Italia ha sempre difeso con ostinazione (come del resto la Lega, fino a determinare la caduta del governo Berlusconi nel 2011). Ci è sfuggito qualche passaggio importante? Staremo a vedere. Certamente le proposte contenute nei programmi elettorali delle forze populiste e riportate nel contratto, al di là della loro sostenibilità economica, camminavano (e continuano a farlo) con la testa rivolta all’indietro verso le generazioni baby boomer in grado di far valere un’anzianità contributiva elevata, pari a quella richiesta per il pensionamento anticipato, a un’età intorno ai 61-62 anni (non a caso quando si è saputo dell’intenzione di Alberto Brambilla di prevedere una soglia minima a 64 anni di età, sono iniziate le proteste).
Proiettati nel futuro quei requisiti (quota 100 come somma dell’età anagrafica e dell’anzianità contributiva oppure 41 anni di versamenti a prescinderà dall’età) diventerebbero impraticabili per le nuove generazioni e fin da ora per le lavoratrici (la cui anzianità media di servizio nel settore dipendete privato è di poco superiore a 25 anni). Ecco, allora, che merita attenzione la priorità indicata dalla Cgil di “avere un sistema previdenziale per le giovani generazioni’’.
Ma il diavolo si nasconde dei dettagli: certamente questo è un approccio più gradito ai cinque stelle che non ai tutori dei bravi lavoratori padani. Anche giudicando i governi per il merito dei provvedimenti che assumono è sempre possibile usare metri di misura differenti a seconda degli interlocutori con cui si ha a che fare. Senza tornare ai fasti e ai nefasti della Prima Repubblica (quando il movimento sindacale si specchiava interamente nel quadro politico) la Cgil è stata con Sergio Cofferati prima, con Guglielmo Epifani e Susanna Camusso poi, il “soccorso rosso’’ delle coalizioni di centro-sinistra, sconfitte nelle elezioni del 1994, del 2001 e del 2008.
Di Maio si guarda bene dallo sfidare il sindacato sul terreno dell’innovazione. Lo lusinga su quello della conservazione
Così al Cavaliere non bastava battere gli avversari nelle urne, ma era costretto a sobbarcarsi scioperi, manifestazioni, spesso a opera della sola Cgil (nel 2002 questa confederazione condusse in solitudine una offensiva spietata contro la legge Biagi e il c.d. Patto per l’Italia, in difesa del tabù dell’articolo 18 dello Statuto). Essa, in questo modo, condizionava l’azione politica del partito in cui erano, di volta in volta, confluiti gli eredi del Pci e i loro nuovi alleati, fino alla costituzione del Pd. La Cgil, per la sua potenza di fuoco organizzativa è rimasta a lungo il “santo protettore’’ della filiera Pds-Ds-Pd e delle coalizioni della gauche, mentre Cisl e Uil (ma come loro le organizzazioni del movimento cooperativo e del mondo economico costituite, anch’esse, con il lievito delle ideologie della Prima Repubblica) stavano accampate nella “terra di nessuno’’, costrette, per sopravvivere, ad appoggiarsi, come in un Limbo, ora ai governi considerati “nemici” dalla Cgil, ora ritornando a Canossa nell’alveo di una stentata unità d’azione. In sostanza, la cinghia di trasmissione ritornò in auge, ma si mise a scorrere nella direzione opposta. Quando, dopo l’esito deludente delle elezioni del 2013, si rese necessaria una segreteria di transizione, il Pd ricorse a Guglielmo Epifani, riconoscendo così alla Cgil il ruolo della “patria comune’’ di tutte le componenti che affliggevano il partito.
Ma la stagione del disincanto e dello scontento era ormai prossima. La Cgil – presa in contropiede dal leale appoggio che il Pd di Pier Luigi Bersani aveva garantito al governo Monti e all’approvazione delle sue “inique’’ riforme – non si era fidata (anzi strutture importanti dell’organizzazione avevano esplicitamente appoggiato Gianni Cuperlo) dell’ascesa di Matteo Renzi, il quale aveva ricambiato con un sostanziale disinteresse per le organizzazioni sindacali e addirittura con una critica diretta nei confronti della confederazione di Corso Italia.
Il governo del “giovane caudillo’’ aveva poi assunto provvedimenti in materia di lavoro (la riforma del contratto a termine e il pacchetto del Jobs Act) che nessun esecutivo, anche di centro-destra, aveva mai osato adottare o era riuscito a portare a conclusione. A separare i due mondi della gauche non vi sono state soltanto le polemiche che i leader hanno preso a scambiarsi quotidianamente: Susanna Camusso che snocciolava tutto l’armamentario di una tradizione ammuffita, fino alla minaccia salvifica (quasi un atto di fede) dello sciopero generale; Matteo Renzi che colpiva al cuore il credo degli avversari affermando che l’istanza del posto di lavoro fisso apparteneva al passato.
Quale sarebbe stato l’esito dello scontro tra le due sinistre e dove sarebbero confluiti i suffragi orientati dalla confederazione rossa? Le forze a sinistra del Pd – da Sel a Liberi e uguali – sono risultate formazioni minoritarie – anche se i gruppi dirigenti della Cgil hanno trescato con loro – per poter rappresentare, a livello istituzionale, un’organizzazione con milioni di iscritti. Del resto, ognuno ha un proprio destino. La Cgil può fare tutti gli scioperi generali che vuole, può qualificarsi sempre più come un sindacato autonomo, ma non può mutare il proprio dna: nata da una costola della politica non può restare a lungo priva di riferimenti di tale natura. Ma non è in grado di costruirseli in proprio o insieme con altre forze.
Sergio Cofferati ci provò nel 2001, ma non ebbe il coraggio di misurarsi in prima persona e mandò avanti, nel Congresso di Pesaro, un re travicello come Giovanni Berlinguer. Fu sordo anche all’appello dei girotondini e si accontentò di essere catapultato sotto le Due Torri per riconquistare il comune strappato da Giorgio Guazzaloca. Susanna Camusso non ha il carisma necessario. Il solo uomo che poteva essere prestato alla causa del riscatto della sinistra era Maurizio Landini. Ma il leader della Fiom finì per rimangiarsi quella iniziativa (Coalizione sociale) di cui non si capiva bene la natura. Scelse di correre per la successione a Susanna Camusso, senza accorgersi che, nel frattempo, i lavoratori, gli iscritti alla Cgil avevano deciso di affidarsi a nuovi protagonisti politici (da un’analisi commissionata dalla segreteria confederale è emerso che circa un terzo degli iscritti, il 4 marzo, ha votato per i cinque stelle mentre un 10 per cento si è rivolto alla Lega).
Che altro aspettarsi quando le misure promesse nei programmi (abolizione della legge Fornero, radicale modifica del Jobs Act, lotta alla delocalizzazione e via riesumando) erano ricalcate con la copia carbone (sul Foglio abbiamo individuato anche le fonti) dai documenti della Cgil? Ha ragione Marco Bentivogli: è stato il populismo sindacale a tirare la volata a quello politico. Se l’Ilva è ancora a bagnomaria, nelle mani di un ministro-ragazzino che non sa come muoversi, la responsabilità è di quei sindacati che non hanno voluto approfittare delle opportunità offerte, in zona Cesarini, dal ministro Carlo Calenda e dalla brava Teresa Bellanova.
Tuttavia, come era già successo quando il Carroccio di Bossi cercò di organizzare un sindacato padano – che non è mai riuscito a guadagnarsi un minimo di credibilità e di capacità organizzativa – i lavoratori non abbandonano volentieri l’usato sicuro per il nuovo sconosciuto (anche se adesso la Cgil è insidiata in molti settori dal sindacalismo radicale di base). E se Maometto non va alla montagna tocca a essa di muoversi verso il profeta. Ciò vale anche per il M5s, il quale non può pensare di conservare un terzo dell’elettorato solo con la piattaforma Rousseau e la democrazia diretta attraverso la rete (e una delega conferita a un ministro).
Le formazioni intermedie, le strutture associative, grazie all’agibilità politica di cui godono, possono drenare, consolidare e prolungare il potere, sempre volatile e liquido (come si dice adesso), conquistato attraverso il voto. Ecco perché dobbiamo aspettarci un’opa grillina (per recuperare l’erosione in corso a opera della Lega) non solo su parte dell’elettorato rimasto nel perimetro Dem, ma sulla stessa Cgil. Con un’azione a tenaglia: Di Maio si guarda bene dallo sfidare il sindacato sul terreno dell’innovazione; preferisce lusingarlo su quello della conservazione e, nella misura del possibile, farsi garante (come nel caso dei voucher) della difesa d’ufficio di una fatwa di Susanna Camusso contro il ripristino dei “pizzini’’. La linea di condotta della confederazione rossa deve essere seguita, dunque, con attenzione e senza semplificazioni.
La Cgil non è attratta dal governo gialloverde (i colori dell’itterizia e della bile) nel suo insieme, anche perché si è accorta che non esiste una compagine unita e collaborativa. Matteo Salvini e Luigi Di Maio si sono spartiti le aree di influenza (anche se l’energumeno del Carroccio non esita a invadere i campi altrui). Ma Salvini resta un avversario con questa sua ossessione di dare la caccia ai negher. Addirittura, in una recente dichiarazione, la leader della Cgil ha usato parole molto dure: “C’è un clima intollerabile e insopportabile in questo paese. E’ un paese che non merita più la definizione di paese civile”. Attenzione però: ce l’aveva solo con Salvini. Nei giorni scorsi, Camusso, sul Manifesto, aveva ribadito di condividere tutto ciò che riguarda l’accoglienza dei migranti. A parole. La Cgil di Luciano Lama avrebbe dichiarato uno sciopero generale in tutti i porti italiani se un ministro di Polizia si fosse azzardato a impedire l’attracco di un battello carico di “dannati della terra’’.
La Cgil cerca, in sostanza, di riposizionarsi in vista dello scontro decisivo tra il populismo di destra e quello di sinistra. Guarda con interesse al M5s e prende le distanze dalla Lega. Lo certifica con un’onestà disarmante Maurizio Landini, anche lui in una intervista al Manifesto: “Questo governo è il frutto di un contratto tra due movimenti molto diversi che sono stati premiati dal voto degli italiani. Noi come Cgil siamo autonomi dai partiti e quindi guardiamo al merito dei singoli provvedimenti. Sui migranti e sulla chiusura dei porti siamo davanti a una guerra ai più poveri mentre invece di combattere chi ha la pelle nera bisognerebbe combattere il lavoro nero. Allo stesso tempo distinguiamo e diamo un giudizio positivo sui provvedimenti sul tema del lavoro”. Proprio così: un “giudizio positivo” che non viene ripensato da Landini neppure quando è stato provato che il decreto (in)dignità il lavoro non lo crea, ma lo distrugge.
Non c’è da stupirsi: è Piergiovanni Alleva – il capostipite dei giuslavoristi vicini alla Cgil – l’autore del testo. Come ha detto Matteo Renzi, nel bel discorso all’Assemblea nazionale del Pd, c’è un significativo settore di opinione pubblica (e dell’establishment) che considera il M5s alla stregua della nuova sinistra. E probabilmente questa è la convinzione di almeno metà del Pd. Anzi, la questione cruciale, al centro del Congresso Dem, verterà proprio sul rapporto con il M5s. E non sarà soltanto un banale problema di convergenze parallele tra un partito e un sindacato, ma la ricerca di contenuti comuni all’interno di un progetto politico più ampio di rifondazione della gauche, imperniato sui grillini, a cui la Cgil è attenta e interessata.
Una parte consistente della sinistra, fuori e dentro al Pd, ritiene che la sconfitta elettorale sia la conseguenza delle politiche riformiste attuate dai governi della XVII legislatura, con l’impegno determinante di Matteo Renzi. Proprio per questo motivo, le politiche (per ora solo) annunciate dal M5s in materia di lavoro sono condivise in modo trasversale nell’arcipelago delle sinistre politiche e sindacali.
Quando l’ex ministro Orlando afferma “basta con Blair’’ (va bene Jeremy Corbyn, allora?) e quando Nicola Zingaretti, candidato a salvare il partito, evoca il fallimento delle società occidentali a causa delle politiche liberiste (ma ne esistono delle diverse che non siano quelle di Maduro?) è chiaro che nella loro testa si è incuneata l’abiura per le politiche riformiste portate avanti negli ultimi anni. Quando Cesare Damiano sostiene che talune misure contenute nel decreto dignità le aveva proposte lui (ed è vero), ma Renzi gli ha impedito di portarle avanti; quando Sergio Cofferati apprezza le norme sulla mortificazione del contratto a termine, che cosa possiamo pretendere? Dario Franceschini con la sua cadenza ferrarese, ha fatto il verso a Massimo D’Alema e ha chiesto persino di dialogare con l’elettorato “grillino’’ che i Dem avrebbero spinto tra le braccia di Salvini (“amor che a nullo amato amar perdona’’). Si spiega, così, la critica inaspettata alle proposte sulle pensioni di matrice leghista a fronte di un’apertura di credito (“si va nella direzione giusta’’) per la controriforma dei contratti a termine. “Il cambiamento – ha affermato Maurizio Landini nell’intervista citata – lo abbiamo visto nella gestione di alcune crisi come Ilva (sic!, ndr) e sul tema dei diritti dei riders (arisic!, ndr). Noi però chiediamo di essere ascoltati su molti altri temi: dagli ammortizzatori sociali che sono stati ridotti dal Jobs Act e a settembre rischiano di produrre migliaia e migliaia di licenziamenti, dalle pensioni per superare la Fornero al fisco per ridurre le tasse a lavoratori e pensionati per non parlare della politica industriale”. Già la politica industriale dove troneggia – siamo alle comiche finali – la lotta alle delocalizzazioni, un altro argomento su cui la Cgil ha dato la linea.