Il bisogno di scambiare volontariamente. Un gioco a somma positiva
Qualche nota storica (ed economica) sui danni del protezionismo. Perché è una lezione che fatichiamo a imparare
Roma. Malgrado i vantaggi che un paese esportatore come il nostro può trarne, la maggioranza gialloverde ha annunciato il proposito di rifiutare la ratifica del Ceta, il trattato di libero scambio fra Canada e Unione europea. E’ forse l’ennesima prova dell’incapacità di apprendere dagli errori. Una storia che, in circostanze e latitudini diverse, si ripete spesso. Significativo è quanto avvenuto anche all’indomani della Grande Depressione. I dazi doganali hanno allora raggiunto il “livello più alto della storia americana”. E “le borse sono crollate violentemente (…). I mercati e la divisione internazionale del lavoro sono stati artificiosamente manomessi, i consumatori americani ulteriormente oppressi e l’agricoltura, come anche i settori maggiormente dipendenti dalle esportazioni, sono stati gravemente danneggiati dal conseguente declino del commercio internazionale” (Murray N. Rothbard).
Anche se i suoi risultati sono stati sempre opposti a quelli promessi, il protezionismo sopravvive a ogni smentita e all’indiscutibile fatto che il nostro benessere e gran parte della nostra civiltà debbano essere ascritti a merito del libero scambio. Quest’ultimo si è affermato molto lentamente, attraverso la strenua e pervicace azione del “Free Trade Movement”. E’ stato adottato dalla Gran Bretagna nel 1860. Ma non ha mai dominato completamente la scena. Per rendersene conto, è sufficiente aggiungere alle tariffe doganali introdotte dal presidente Hoover l’autarchia proclamata e praticata, già prima di quei provvedimenti, da vari paesi europei. A dispetto dei benefici che arreca, sembra che la libertà di commercio sia un’idea di difficile comprensione. A portare fuori strada, è probabilmente l’incapacità di vedere che lo scambio fra individui che vivono in aree politiche diverse è semplicemente la vantaggiosa estensione dello scambio intersoggettivo che avviene fra cittadini di uno stesso paese.
E’ un gioco a somma positiva: lo scambio è un atto volontario, a cui aderiamo solamente se ci porta dei vantaggi. Se così non fosse, la stessa vita sociale sarebbe impossibile. Ci troveremmo in una situazione di guerra permanente fra piccoli gruppi, in cui il gioco sarebbe a somma zero. Come ha sottolineato Georg Simmel, la “rapina (… appare) come la forma più primitiva di cambiamento della proprietà, in cui il vantaggio sta tutto da una parte e la perdita tutta dall’altra. Quando, al di là di questo stadio, si sviluppa lo scambio come forma di cambiamento della stessa proprietà (…), siamo di fronte a uno dei più straordinari progressi dell’umanità”.
Abbiamo quindi bisogno di scambiare volontariamente. E ci rivolgiamo anche a produttori che vivono in aree politiche diverse dalla nostra. E’ così che allarghiamo l’ambito della nostra libertà di scelta, favorendo lo sviluppo di quelle imprese che meglio soddisfano i nostri bisogni, rendiamo possibile la crescita della produttività e del prodotto.
Ciò è esattamente il contrario di quel che accade allorché i governanti introducono delle tariffe protettive. Queste restringono immediatamente la nostra libertà di scelta. C’impediscono di rivolgerci a chi ci può servire meglio. E ci fanno pagare più del necessario i beni che avremmo potuto ottenere a condizioni più favorevoli. Come dire che il consumatore è chiamato a sostenere imprese inefficienti. E non solo. La “protezione” richiama capitali nel proprio ambito. Il che determina un’alterazione del meccanismo di allocazione delle risorse. E, poiché queste vengono ora attratte da un settore tenuto artificiosamente in piedi, la caduta della produttività, del prodotto e delle ulteriori possibilità di crescita ne sono il puntuale esito, che non può essere giustificato con i minimi e transitori vantaggi, procurati dalle tariffe doganali, a un singolo a un gruppo particolare di persone. Il fatto è che le posizioni occupate nell’economia di mercato non sono acquisite una volta per tutte. La divisione del lavoro, interna e internazionale, viene sottoposta a un continuo processo di cambiamento. Se decidiamo di “proteggere” qualcuno dalla concorrenza, addossiamo i relativi costi sulle spalle di tutto il resto della popolazione, presente e futura.
Non ci sono pertanto ragioni economiche che giustifichino l’introduzione di tariffe doganali. Ovviamente, i governanti cercano sempre di fornire una maschera economica al loro interventismo. Ma quel che in realtà essi pongono in essere è semplicemente un’operazione tramite cui “acquistato” il consenso di un determinato gruppo. In aggiunta a quanto detto, ciò innesca sul piano interno una generalizzata corsa alla ricerca di “protezioni”, che stravolge le regole dello Stato di diritto e riduce pericolosamente la libertà individuale di scelta; sul piano internazionale, la conseguenza ultima non può che essere l’indebolimento o la rottura di ogni tipo di cooperazione. Già nel 1759, Adam Smith scriveva: “La Francia e l’Inghilterra (… non dovrebbero) invidiare la felicità interna e la prosperità dell’altra, la coltivazione delle terre, il progresso delle manifatture, lo sviluppo del commercio, la sicurezza e il numero dei porti, la competenza in tutte le scienze e le arti liberali (…). Questi sono tutti reali miglioramenti del mondo in cui viviamo”.