Giovanni Tria (foto LaPresse)

O Tria o Troika

Luciano Capone

Perché è meglio se Di Maio non costringe il ministro dell'Economia a dimettersi. Salterebbe il governo (e l’Italia)

Roma. Nell’ultima settimana è stato un crescendo. Prima la minaccia di “fare pulizia” al Mef e alla Ragioneria dello stato, l’idea azzardata di rimuovere Daniele Franco, poi l’attacco frontale al presidente dell’Inps Tito Boeri culminato con la richiesta di dimissioni, infine l’accusa di incompatibilità e la richiesta di dimissioni del presidente della Consob Mario Nava. A un certo punto la tensione per la spartizione delle nomine e l’insofferenza verso i tecnici che fanno i conti con la realtà, stavano conducendo alla messa in discussione del ministro dell’Economia Giovanni Tria. Ma in questo caso, l’offensiva è rientrata. Le voci di un possibile passo indietro di Tria hanno allarmato i mercati e costretto il Mef a smentire come “pura fantasia” le notizie sulle dimissioni minacciate dal ministro. La smentita è arrivata anche da Luigi Di Maio, visto che il suo partito è stato molto critico nei confronti di Tria: “Non ci sono contrasti”, ha detto il vicepremier e il M5s non ha “mai chiesto” le sue dimissioni. Più tardi si è iniziato a comporre il puzzle delle nomine, con la scelta di Fabrizio Palermo come ad di Cdp, la salita delle quotazioni di Alessandro Rivera come dg del Tesoro. Tria ha ceduto su Cdp, dove avrebbe preferito Dario Scannapieco, per difendere il fortino del Mef con Rivera, nome che è garanzia di competenza e continuità.

 

Il nome di Rivera però non è molto gradito, per usare un eufemismo, ai partiti di maggioranza, visto che durante l’èra Padoan è stato il responsabile della direzione del “Sistema bancario” e ha seguito il dossier banche. Ma per il ministro è il nome più affidabile. Anche se l’allarme dimissioni è completamente rientrato, non è affatto risolto il problema politico: da un lato un ministro che sente il peso della responsabilità di salvaguardare i conti pubblici molto fragili in un quadro di forte incertezza politica ed economica, dall’altro partiti che sentono l’esigenza di trasformare le promesse elettorali contenute nel programma di governo in realtà. Quindi in deficit.

 

Questa incompatibilità irrisolvibile, a lungo sopita dal carattere di Tria, conciliante nei modi ma saldo nei princìpi, è destinata a emergere man mano che il tempo passa. Finché non saranno completate le nomine e definiti gli incarichi più importanti non verranno assegnate le deleghe ai quattro sottosegretari, che iniziano a scalpitare. Soprattutto i due del M5s, Laura Castelli e Alessio Villarosa, che ambiscono rispettivamente alle deleghe sulle partecipazioni – che però in teoria spetterebbero al direttore generale del Tesoro (per questo Tria vuole Rivera) – e sulle banche. La tensione sale anche per una incomunicabilità causata da una differenza quasi antropologica, che non c’è con gli uomini della Lega che hanno una maggiore esperienza di governo. A ogni esibizione pubblica dei sottosegretari pentastellati aumentano la preoccupazione e la diffidenza di Tria a cedere dossier delicati. Solo ieri la Castelli – che aveva esordito al Mef con un comunicato che minava l’indipendenza dell’Istat e proseguito una non brillante performance in commissione Finanze – ha dichiarato sul caso Boeri che: “Quelle di Boeri sono ipotesi di sociologia. Se in una relazione tecnica si scrivono cose che potrebbero succedere, allora potrebbe succedere anche un cataclisma”. Che non è esattamente un buon biglietto da visita per chi nei documenti economici dovrà inserire molte previsioni.

 

La diffidenza di Tria alimenta i sospetti degli altri, se il ministro è preoccupato della loro approssimazione gli altri non si fidano della sua preparazione. Il ministro è considerato troppo vicino alla Banca d’Italia e agli ambienti del Mef (la difesa di Daniele Franco e la scelta di Rivera hanno confermato questa sensazione), più legato al Quirinale e alla Banca centrale europea di Mario Draghi che al “contratto di governo” di Di Maio e Salvini. Il problema è che – a differenza di altri tecnici come Franco, Boeri e Nava – non sarà facile liberarsene. Tria è considerato dagli investitori come l’unica voce rassicurante, è l’unico esponente che può garantire il controllo dei conti pubblici e la permanenza nella moneta unica.

 

La sua forza non è il potere politico, ne ha poco ed è piuttosto isolato, ma la sua credibilità. Come ha insegnato la tempesta finanziaria causata dal leak della bozza del “contratto di governo” e come suggeriscono le previsioni pessimistiche del Fondo monetario internazionale, se salta lui salta tutto. Senza Tria, arriva la Troika. A fine maggio, quando lo spread era schizzato in alto, in maniera piuttosto insolita per un banchiere centrale, l’allora vicepresidente della Bce Vítor Constâncio consigliò all’Italia di “rileggersi le condizioni dell’Omt”. E’ lo scudo antispread, e non scatta se non si firma un memorandum di riforme con la Troika.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali