È finita la pacchia. Saggio antisfascista di Pier Carlo Padoan
Solidità e fondamentali ritrovati dopo la grande crisi sono di nuovo a rischio. Le politiche sovraniste e populiste generano incertezze pericolose, perseguono idee di società insostenibili, bloccano le riforme, seminano panico. Il cigno nero lo stiamo fabbricando in casa
La nostra economia vive una situazione di elevata incertezza, non solo per come è in questo momento ma soprattutto per come si troverà domani. Tra breve. Di fronte al paese c’è più di una strada: siamo a un bivio. C’è una via di continuità, che non significa chiaramente stare fermi ma che anzi richiede un rafforzamento e una accelerazione; e c’è una via di forte insicurezza che viene presentata come la chimera di una scorciatoia. Che potrebbe portarci a situazioni difficili. Molto difficili: sul crinale di una caduta nel precipizio. Partiamo dai numeri. Quello più indicativo è lo spread, che al di là delle oscillazioni giornaliere, da un paio di mesi si è stabilizzato a circa 100 punti sopra a quanto stava prima. I mercati non hanno reagito immediatamente alla vittoria elettorale delle forze ora al governo. Inizialmente hanno aspettato, cercando di capire. Questa situazione è radicalmente mutata quando si è fatta più concreta la possibilità del governo gialloverde e contemporaneamente gli azionisti del futuro esecutivo – i sottoscrittori del “contratto” – hanno reso esplicite le loro intenzioni su un ventaglio di questioni. Non solo la opzione dell’uscita dall’euro e il non considerare come debito i titoli pubblici comprati dalla Banca d’Italia nel programma di Quantitative easing della Bce, ma anche proposte come i mini-Bot, che di fatto prefigurerebbero una doppia moneta, e ancor più quella di riservare 250 miliardi di titoli di Stato ai “risparmiatori italiani a tassi più vantaggiosi”.
Il giudizio dei mercati non è una cospirazione permanente, ma la misura della credibilità e della reputazione di un paese
Le illusioni che queste proposte creano all’interno, mentre all’estero seminano panico, costano. E dunque attenzione: “tassi più vantaggiosi” significa generare, per chi ci crede, l’idea che un governo possa distribuire a piacimento i dividendi non dei suoi profitti ma del suo debito. Come negli anni Ottanta quando i Bot arrivarono a rendere il 22 per cento, l’inflazione li divorava, e la percezione era di una ricchezza facile e disponibile per ognuno. Aggiungo le affermazioni dell’onorevole Claudio Borghi, responsabile economico della Lega e presidente della commissione Bilancio della Camera, sul Monte dei Paschi: la prima, che non avrebbe confermato i vertici attuali; la seconda, che lo Stato, entrato provvisoriamente nella banca e titolare dei due terzi del capitale, sarebbe rimasto indefinitamente padrone, primo caso in epoca recente di rinazionalizzazione di fatto di un istituto di credito, in contrasto con gli accordi sottoscritti con la Commissione europea che consentono al Tesoro di restare azionista per il tempo necessario a che Mps si rimetta in piedi, e non oltre. Il che ha prodotto questo effetto: il Monte dei Paschi che a marzo aveva presentato i risultati della prima trimestrale, positivi vista la situazione, e premiati da un significativo guadagno in borsa (guadagno anche per il Tesoro), ha visto distrutto questo guadagno in poche ore.
Per non parlare della recente proposta del ministro Paolo Savona di considerare il surplus di parte corrente come “spazio fiscale” utile per finanziare investimenti pubblici. Tutto questo, che in parte è stato tolto dal “contratto”, ma in buona misura no, e anche la parte tolta via via riaffiora in esternazioni, dà il senso di come un paese moderno, fortemente integrato non solo nell’area comune dell’Unione europea e nell’area dell’euro, ma anche nella dinamica dell’economia globale, sia ora, più che mai, costantemente sotto il giudizio dei mercati. E questo giudizio non è una cospirazione permanente – che è l’ossessione compulsiva dei sovranisti, e il loro alibi – ma la misura della credibilità, e come altrimenti si dice, della reputazione, della quale un paese beneficia. Ma ancora dà la misura di quanto le parole e la propaganda abbiano un impatto diretto e immediato sulla ricchezza e sul risparmio degli italiani. Questa è la reputazione: il paese è esposto al giudizio non solo e non tanto dei cosiddetti “euroburocrati”, ma di chi liberamente compra e vende i nostri titoli.
Un ulteriore elemento di forte preoccupazione all’estero è che la politica di riforme venga rimessa in discussione, ripudiata
Inoltre: lo spread fotografa il rischio complessivo di un paese rispetto a un benchmark, nel nostro caso la Germania; ma a sua volta questo rischio complessivo ha varie componenti. E ora si moltiplicano analisi e dossier da parte di studiosi così come di banche di investimento che dimostrano come una quota dello spread ha a che fare con il cosiddetto rischio di ridenominazione. E cioè si comincia a prendere sul serio il pericolo che la moneta dell’Italia possa non essere più l’euro, ma un’altra valuta. E questo va oltre al fatto che questa banca o quel fondo smetta di comprare i Btp. Il rischio di ridenominazione è alimentato dalla possibilità che l’incertezza, e la diffidenza, divengano permanenti, e quindi si chieda al nostro governo, al nostro paese, e in definitiva a tutti noi, di fornire garanzie ulteriori che pagheremo molto care. Naturalmente questo rimanda a che cosa farà il governo nei prossimi mesi. Le scelte di governo hanno a che fare con le grandezze di bilancio: deficit, debito, saldi strutturali. E inoltre hanno a che fare con i contenuti della manovra: che cosa ci facciamo con gli spazi di bilancio. Ma c’è una terza componente che negli ultimi anni è stata molto importante: e cioè le riforme strutturali. Quelle che non necessariamente dipendono dal bilancio ma riguardano il modo di funzionare dello Stato e dell’economia e quindi la crescita. Ed è, questo, un ulteriore elemento di forte preoccupazione all’estero, sia a livello di mercati sia di istituzioni: che la politica di riforme, che con varie velocità era stata portata avanti dai governi precedenti, venga interrotta, rimessa in discussione, ripudiata, e i risultati fin qui ottenuti siano cancellati.
L’emergenza economica c’è. Fondamentali buoni, dopo i sacrifici. Ma le riforme in programma e le illusorie meraviglie di un’Italia “sovrana” resuscitano lo spettro (reale) di una prossima deriva sudamericana
Lo vediamo nel mercato del lavoro, dove è preso di mira il Jobs Act. Lo vediamo nella previdenza, dove il bersaglio si chiama legge Fornero. Lo vediamo in materia fiscale, con la promessa della flat tax che però deve passare per quel che sembra un gigantesco condono. Lo vediamo nelle banche, dove una riforma di sistema quale quella delle banche di credito cooperative, viene minacciata di sospensione. Alla fine, qual è il segnale che il governo sta mandando? Al di là dei vincoli di bilancio, il segnale è, appunto, di ripudio. Ripudio delle riforme: ma non è perché riforme vecchie vengono sostituite con riforme nuove, di segno politico diverso o anche opposto, il che certamente fa parte del meccanismo democratico. No: le riforme vecchie vengono bloccate (a volte con una logica “punitiva”), si torna all’antico ma non si dice qual è il progetto riformatore. Certo, l’obiezione la sento già. La propaganda elettorale prima, il “contratto” dopo, prevede lo smantellamento della legge Fornero, il reddito di cittadinanza e la flat tax. E’ un programma riformatore? Sì, perché smantella il passato. Peccato che sia del tutto insostenibile, oltre che contraddittorio, dal punto di vista delle risorse pubbliche.
La storia dell’economia è piena di cigni neri. Il punto però è: che cosa fanno un paese e una comunità internazionale se arriva un cigno nero? Qui si è fatto ambiguamente pensare che se ci fosse un fattore esogeno, violento, “derivante da altri”, la soluzione potrebbe essere la nostra uscita dall’euro
Si sente definire questo quadro in vario modo, perfino “deriva sudamericana”. Lo ha detto il presidente dell’Associazione bancaria, Antonio Patuelli. L’ho sentito e mi sono venuti i brividi. Perché nel mondo delle fake news quando affermazioni simili vengono da autorevoli esponenti della classe dirigente non si può non cercare di capire che cosa c’è oltre le parole. Ho un’esperienza diretta della crisi argentina: era il 2001, quando esplose il problema dei debiti non ripagati da Buenos Aires, che colpì in gran parte gli investitori italiani (trattati molto male dalle autorità di allora dell’Argentina). E oggi una crisi di tipo sudamericano, che potrebbe essere violenta, riporta ancora più indietro, a prima del 2001, agli anni Settanta e Ottanta, a fantasmi più lontani nel tempo, e dunque più radicati nell’immaginario del mondo, e nella storia di questo dopoguerra. Anche allora si parlava di un’Italia sull’orlo di un baratro sudamericano: e cioè nazionalizzazioni, iperinflazione, ripudio del debito, scontri sociali violenti, parole durissime in libertà. Ora, l’immagine che abbiamo di quegli anni è arrivata diversa, filtrata dal tempo: un paese tutto sommato lustro e sorridente, i suoi grandi film, le sue serate televisive. Il che è vero, anche se magari si rifà più agli anni precedenti, quelli del boom. Ma allora, quel che in realtà si diceva era questo: l’unica cosa che protegge l’Italia dal rischio sudamericano è che il nostro paese sta in Europa. Questo era la vera nostra difesa, quando ancora né l’euro né il Fiscal compact erano neppure all’orizzonte.
Quindi evocare oggi, nel 2018, sia pure in questa nebulosa, una prospettiva sudamericana, mi fa, ripeto, venire i brividi. Perché conferma che siamo a un incrocio di varie strade. Ed una di queste strade può essere proprio il Sudamerica. Certo, quello all’assemblea dell’Abi era una sorta di esorcismo: al quale però è seguito il tweet “Argentina!”, corredato di faccine, di Borghi, che forse nessuno ha capito, Ma il punto è: non si scherza con queste cose. Con queste tragedie, che hanno riguardato, e ancora riguardano, il Sudamerica, ma anche tanti italiani. Questo mi porta a parlare nuovamente di Savona, alla cui scienza accademica tutti tributiamo il massimo e non formale rispetto. Ma se sei ministro, e in una posizione che ha direttamente a che fare con l’Europa, evocare il cigno nero o il Piano B, significa agire, volente o meno, da moltiplicatore dell’incertezza. Perché fai appunto parte del governo, tanto che uno dei due vicepremier, Di Maio, si è sentito in dovere di smentire queste ipotesi. L’idea, anche lontana, che l’Italia possa abbandonare l’euro. Tutto questo non è casuale, non è banale, e preoccupa.
Giuseppe Conte, Giovanni Tria, Paolo Savona (foto LaPresse)
Ma che cos’è il cigno nero? I cigni, si sa, sono bianchi, ma ogni tanto, con probabilità bassissime, ne arriva uno con le piume nere. Lo ricordo per dire che non siamo di fronte a un prodotto di fantasia: il cigno nero esiste. In finanza i cigni neri sono eventi inattesi, che magari hanno covato a lungo sotto la cenere e poi sono saltati fuori. La storia dell’economia è piena di cigni neri. Il punto però non è che essi ci siano, ma un altro: che cosa fanno un paese e una comunità internazionale se arriva un cigno nero? Qui si fa, o si è fatto ambiguamente pensare, che se ci fosse un fattore esogeno, violento, “derivante da altri”, la soluzione al cigno nero potrebbe essere la nostra uscita dall’euro. Questo è il vero problema di oggi, ed è un problema che ci stiamo fabbricando in casa. Le crisi finanziarie ci saranno sempre, esattamente come i cigni neri, e si portano tutti i loro problemi di strascichi economici, sociali, politici. Un cigno nero potrà comparire all’orizzonte in un lago di cigni bianchi. Ma prepararsi non significa avere un Piano B. Significa avere un ben fornito cassetto degli attrezzi, una sfilza di strumenti di emergenza per resistere. Gli antidoti, non la fuga. Occorre rafforzare la resilienza finanziaria: averla non significa possedere un’arma segreta che magari non useremo, ma disporre di una significativa quantità di contromisure, comprese quelle per ridurre le fonti di rischio. Ma invece, come dicevo, si instilla ambiguamente il concetto che al cigno nero si risponde con l’uscita dall’euro. E appunto, questo parlare di cigni neri e piani B, di doppia valuta, di disconoscimento del debito, insomma queste affermazioni e comportamenti messi in fila nel breve spazio di poco più di un mese, danno effettivamente la sensazione che si stia pericolosamente scherzando col fuoco. Che il rischio, invece di essere ridotto, venga aumentato.
E il paradosso è che si scherza col fuoco, cercando di illudere la gente sulle meraviglie di un’Italia “sovrana”, fuori dall’euro e dall’Europa, mentre anche da noi l’opinione pubblica dà segnali di capire quanto, nonostante tutto, ci convenga tenerci la moneta unica e anzi non metterla neppure in discussione. L’ultima conferma ci viene dal recente sondaggio di Sky Tg24, condotto non istantaneamente col telecomando ma a campione e per due mesi da istituti specializzati. Dice che più del 65 per cento della popolazione non vuole il referendum consultivo sull’euro; e se una consultazione simile si tenesse oggi il 74 per cento voterebbe per restare e solo il 22,5 per uscire, con una percentuale minima di indecisi. In altri termini, i tre quarti degli italiani vogliono tenersi l’euro, in linea con gli altri paesi della moneta unica. E questo è un punto molto importante. Bisogna parlare di finanza pubblica e di come i primi passi dei partiti di governo abbiano allarmato i mercati. Ma poi appunto ci sono gli italiani: i quali di fronte a ipotesi estreme, ma anche alla propaganda anti-euro e anti-Europa, reagiscono nel modo giusto. Il che significa che nonostante tutto possiamo essere ottimisti: l’Italia è un paese più maturo di quanto si pensi.
Guardando ai vent’anni alle nostre spalle, i dati segnalano una perdita di competitività non compensata dagli sforzi di quella parte del sistema delle imprese che si trova sulla frontiera dell’export, e che all’interno si è riflettuta sia nella crescita modesta sia nell’andamento contenuto dei consumi
Questo ci porta ai fondamentali della nostra economia. L’Italia ha passato una crisi finanziaria molto dura, con più del 9 per cento di perdita di pil, e ha subìto questa crisi con una struttura economica e finanziaria già indebolita: nei primi anni Duemila il tema ricorrente nel dibattito tra economisti era il declino, e non c’è dubbio che un declino ci sia stato e poggi su fattori strutturali. Guardando ai vent’anni alle nostre spalle i dati segnalano una perdita di competitività non compensata dagli sforzi di quella parte del sistema delle imprese che si trova sulla frontiera dell’export, e che all’interno si è riflettuta sia nella crescita modesta sia nell’andamento contenuto dei consumi. Su questa situazione, già nota da tempo, si è dunque abbattuta la crisi che ha imposto all’Italia misure di emergenza. E l’aggiustamento di Mario Monti è stato necessariamente molto duro, colpendo segmenti importanti della nostra società prima ancora che della finanza pubblica: le pensioni, il patrimonio immobiliare, la contrattazione sindacale, il mercato del lavoro sono solo alcuni esempi. Gli aggiustamenti dei governi successivi non hanno sostanzialmente rinnegato quella linea – quella della disciplina di bilancio, certo, ma anche delle misure strutturali non più differibili – per riportare l’Italia alla crescita, sia pure a una crescita ancora insoddisfacente. Ne è emersa un’Italia dai buoni fondamentali, molto più solida di come spesso ci viene descritta. Il problema è che questa solidità è distribuita male: ci sono sacche di povertà, di esclusione e di debolezza ancora molto profonde, sacche non solo geografiche ma anche generazionali.
Il primo obiettivo della politica, dunque, deve essere quello di rafforzare i fondamentali in modo che, se e quando arriverà un’altra crisi, non ci troviamo nelle stesse condizioni del 2011. La storia economica ci dice che le crisi finanziarie ci sono sempre state e continueranno a esserci, quel che cambia è il modo in cui si manifestano. In genere arrivano da dove non le aspetti, tu scruti l’orizzonte da una parte e spuntano dal lato opposto. Nei primi anni Duemila, prima dell’esplosione dei subprime, tutti pensavano che la prossima crisi sarebbe stata innescata da una forte caduta del dollaro visto che la bilancia dei pagamenti americana stava diventando insostenibile.
Aspettiamoci un’altra crisi, e puntelliamo le nostre debolezze. Flat tax e reddito di cittadinanza si elidono tra loro. L’incertezza e l’attrattiva delle scorciatoie mascherate dalla falsa promessa del cambiamento. Ma gli italiani non credono ai miracoli
Invece il dollaro non si è mai veramente svalutato se non per brevissimi periodi, e la crisi è stata domestica, nata sì negli Usa ma nella finanza. Quindi: sì, aspettiamoci un’altra crisi, e puntelliamo le nostre debolezze.
L’Italia si è irrobustita, ma molto ancora bisogna fare per renderla ancora più robusta. Per esempio rafforzando il sistema delle imprese, che in parte va bene o benissimo, essendo noi il secondo paese manifatturiero e il secondo esportatore d’Europa. Questo “malgrado l’euro”: il che dimostra che è la competitività e non la svalutazione a rendere attrattiva e profittevole la nostra industria. Ma poi c’è un serio problema, che è quello che ha contribuito in modo significativo al risultato elettorale: la insufficiente inclusione dei più deboli, dei più poveri, del Mezzogiorno e non solo. Il reddito di cittadinanza non è la soluzione. Sicuramente c’è bisogno di strumenti di immediato sostegno al reddito, ma essi devono essere temporanei e soprattutto tali da non distorcere gli incentivi al lavoro. E la vera arma contro la diseguaglianza è il lavoro. Ed è sui risultati in termini di occupazione che va in ultima istanza valutata l’efficacia della politica economica. Non poco è stato fatto, in buona parte grazie al Jobs Act. Ma non dimentichiamoci che per creare lavoro occorre una componente di domanda, da parte delle imprese, e una componente di offerta, cioè le misure che rendano appetibili le assunzioni. Dal lato dell’offerta il ventaglio di strumenti che si possono usare è ampio, dalla formazione professionale agli incentivi, e su questo argomento non abbiamo bisogno né di giacobinismo né di ideologia. La flessibilità è una parola con accezione negativa, però ci vuole flessibilità in un mondo che sta velocemente trasformandosi. Ci vuole flessibilità, e ci vogliono nuove skills, nuove competenze. Serve un’ampia gamma di strumenti che tengano conto del nuovo quadro tecnologico. Perché indipendentemente dalla crisi il sistema economico si trasforma a una velocità inimmaginabile, sotto la spinta delle nuove tecnologie. Dal lato della domanda, invece, occorre sostenere gli investimenti delle imprese e anche da questo lato gli strumenti sono diversi.
Il reddito di cittadinanza non è la soluzione al problema della insufficiente inclusione dei più deboli, dei più poveri. La vera arma contro la diseguaglianza è il lavoro. Dovremmo avere un settore dei servizi più avanzato, meglio attrezzato, più evoluto tecnologicamente: allora avremmo più occupati
Da questo punto di vista si può essere moderatamente ottimisti. I fondamentali, lo ripeto, sono buoni. Siamo un paese con una forte vocazione manifatturiera, come la Germania. Dipendiamo meno dalla crescita dei servizi. Ma altrove crescita e occupazione sono molto più nei servizi, e lì la precarietà, a parità di altre condizioni, è molto più elevata. E di conseguenza più elevata è la necessità di essere flessibili ma anche di evitare la precarietà. La questione dei riders, che è stata trattata in modo a dir poco demagogico, è l’esempio classico: in un mondo di internet of things tu puoi certo ordinare la pizza sull’iPad, ma poi qualcuno deve portartela. Sulle lezioni da trarre emerge il tipico scontro tra due opposte visioni di questo passaggio di profonda trasformazione. Il pessimista dirà che le nuove tecnologie distruggono lavoro, e basta. L’ottimista dirà che ci saranno (anche) nuovi lavori, nuove skills. Ma dare ragione agli ottimisti richiede adottare le politiche giuste. Consideriamo un dato: l’Italia è tuttora tra i paesi più arretrati nel commercio online. La Germania è tra i più avanzati. E in Italia la disoccupazione è molto sopra la media europea. In Germania è scesa ai livelli minimi. Dunque non c’è corrispondenza diretta tra nuove tecnologie, e-commerce e disoccupazione; anzi. Il problema, per l’Italia, è che dovremmo avere un settore dei servizi più avanzato, meglio attrezzato, più evoluto tecnologicamente: allora avremmo più occupati; così come li abbiamo nella manifattura. Dove le imprese private stanno investendo anche grazie agli incentivi introdotti; è una cosa di cui sono soddisfatto e sembra che lo siano anche le imprese (anche se poi hanno votato Lega).
Torniamo alla questione del bivio che fronteggia l’Italia. Ora, come ho detto, c’è una sorta di furia iconoclasta, di smantellamento di ciò che è stato fatto negli ultimi anni, e che poi in buona misura era contenuto nella lettera Trichet-Draghi inviata ai primi d’agosto 2011 all’allora governo Berlusconi: riforma del mercato del lavoro, riforma della previdenza, impegno a mantenere entro binari obbligati il deficit e il percorso di riduzione del debito. Questo non per un “pedaggio da pagare all’Europa” ma semplicemente perché i mercati smettevano di comprare i nostri titoli di stato, anzi li vendevano – e dunque bisognava ripristinare ciò che si chiama reputazione, ingrediente indispensabile per poter continuare a collocare il nostro debito. Eppure i primi passi del governo sembrano andare nella direzione opposta. Non c’è solo la retorica dello smantellamento delle riforme fatte: emerge un’idea di società del tutto insostenibile. Flat tax e reddito di cittadinanza già si elidono tra loro, la prima beneficia i ricchi, la seconda vorrebbe andare a vantaggio dei poveri. Ma questo produce un progetto strutturale che non funziona e non funzionerà . I mercati ne hanno subito preso nota. Non a caso anche nelle intenzioni del governo sembra farsi strada un approccio alla riduzione delle ambizioni e all’allungamento dei tempi. Si fa (forse) strada l’idea che nel bene o nel male il paese deve rispettare due vincoli, interno ed esterno. Esterno, che è dato dai mercati (oltre che dalle istituzioni). Interno, che è dettato dalla Costituzione che impedisce di fare leggi senza copertura, dal Quirinale che su questo ha diritto di intervento e veto, dalla Ragioneria dello Stato, Alcuni (non tutti) membri del governo hanno detto non solo di voler restare nell’euro, ma anche di rispettare i vincoli europei a cominciare dalla riduzione del debito. Il punto è: basterà?
Forse basta a bocce ferme. Ma la risposta deve essere soprattutto politica. Questi vincoli sono “preziosi” per un paese che ha un debito così elevato, ed elementi di fragilità che ancora devono essere pienamente risolti; (penso alla riduzione delle sofferenze bancarie che comunque sta procedendo). L’incognita è se e quanto nella maggioranza di governo ci sia davvero la volontà di rispettare questi vincoli, e nell’ipotesi che essi non siano forzabili se non spunti la tentazione di rovesciare il tavolo magari andando a elezioni anticipate. Il momento della verità ci sarà alla presentazione della Legge di bilancio. Quale sarà l’impostazione scelta dal governo? Sara di continuità o di chiara discontinuità? Conterrà una visione di lungo periodo o attenta solo all’immediato? Nel 2019 ci sono le elezioni europee, ma potrebbero esserci elezioni italiane ancora prima. E allora rischiamo di entrare in una fase di instabilità crescente senza che chi oggi ha la maggioranza di voti e sondaggi dica davvero dove vuol portare il paese. Fuori o dentro l’Europa? Fuori o dentro il mercato? Fuori o dentro l’integrazione sociale con il resto del mondo? La domanda “dove va l’Italia”, che sembrava ormai destinata a generi letterari, è tornata rilevante, e anche drammatica.
Gli italiani non credono ai miracoli. Sono ragionevoli; sono molto più saggi di come li immaginiamo. E se tanta gente ha votato per i partiti populisti, non solo in Italia, qualche ragione c’è. Fosse solo perché magari, ogni tanto, gli elettori sono assaliti dalla voglia di vedere se quei miracoli qualcuno li fa davvero. Se dovessi cercare di spiegare a un sovranista perché il sovranismo fa male all’Europa, gli direi innanzi tutto che se in ogni paese ci fosse una risposta sovranista, verrebbe confermato che i sovranisti tra di loro di solito non fanno alleanze, mentre spesso si fanno la guerra. E’ illusorio, pericoloso, credere che la soluzione sovranista sia migliore di quella basata sulla cooperazione. Tutti gli esempi di sovranismo nel mondo, a partire dal peronismo dell’Argentina e dai suoi epigoni, sono finiti male, anzi malissimo. Però, aggiungerei anche che su parecchie cose in Europa hanno ragione i cittadini che votano i partiti sovranisti a lamentarsi, e questo vale non solo per gli italiani ma anche per ciò che accade in altri paesi. Ma anche le presunte risposte al sovranismo possono essere “sbagliate”. Negli ultimi mesi in Europa si è formato un blocco di paesi rigoristi guidato dall’Olanda, che ha scavalcato la Germania (ovviamente con il beneplacito della Germania stessa) sulla linea di rigore: e questi paesi chiedono più rigore e disciplina soprattutto all’Italia, dato che gli altri governi del sud Europa hanno fatto gli aggiustamenti dei conti pubblici che erano necessari. Insomma per rispondere efficacemente al sovranismo l’Europa deve cambiare se stessa. Dopodiché al mio amico sovranista domanderei: quali sono i problemi che ti assillano? Metterei al primo posto la prevedibile risposta “I giovani non trovano lavoro perché i migranti glielo tolgono” Beh, questo non è vero e le cifre lo dimostrano: dove c’è occupazione elevata il lavoro c’è per tutti e due, italiani e stranieri, e questo lo si vede certamente al nord. Dove l’occupazione non c’è, la colpa è della struttura del mercato (o del non mercato) del lavoro, non certo degli immigrati. Il punto, è: cerchiamo di ragionare assieme. Altrimenti affondiamo tutti e due, lui sovranista e io che sovranista non sono. E questo perché la prima cosa da riconoscere è che se tanti cittadini hanno abbandonato i partiti più tradizionali, in primis quelli di sinistra, è perché non si sentivano più rassicurati sul loro futuro.
E’ illusorio, pericoloso, credere che la soluzione sovranista sia migliore di quella basata sulla cooperazione. Tutti gli esempi di sovranismo nel mondo, a partire dal peronismo dell’Argentina e dai suoi epigoni, sono finiti male, anzi malissimo. Il dilemma del sentiero da percorrere
Per portare avanti una agenda per le riforme, le parole contano; ma poi deve seguire il principio di realtà. Per esempio, aver Mario Draghi dichiarato che l’euro è irreversibile non vuol dire che il lavoro è compiuto, che le riforme sono state tutte completate, che la verità è dunque data di per sé. L’euro sarà davvero irreversibile quando l’unione monetaria sarà completata, e per questo c’è bisogno della politica, di molta politica. Ma a fianco di questo esiste un forte, un enorme problema di percezione. Lo ha scritto Gregg Easterbrook nel “Paradosso del progresso”: più le cose vanno bene, più i cittadini pensano che vadano peggio. Come mai? Perché si sottostimano i pericoli di uscire dal mondo nel quale viviamo oggi? Non ho ancora incontrato una risposta convincente mentre il problema della percezione sta diventando sempre più complicato. Ed è poi anche una questione di democrazia rappresentativa. Forse da questo punto di vista qualche danno l’ha fatto anche la cosiddetta disintermediazione, cioè la delegittimazione del sindacato e degli organismi appunto rappresentativi della società civile, un fenomeno non solo italiano.
C’è un problema di rappresentatività anche in Europa. A fronte della crisi della socialdemocrazia europea in Europa, il modello Macron, che per molti qui in Italia ha un certo appeal, ancora non si è posto del tutto come alternativa. E’ un modello con un leader molto attento alla comunicazione, e con una certa teatralità. A livello di costruzione europea, Macron ha puntato sulla ripresa della relazione speciale con la Germania, ma con pochi passi avanti.
In ogni caso Macron porrà un problema politico serio alle prossime elezioni europee: i progressisti dovranno dire a quale gruppo politico in Europa intendono affiliarsi. Esisterà ancora un gruppo socialista? Forse il Partito popolare sì; ma il Partito socialista europeo, quello al quale il Pd aveva dato nel 2014 il maggior contributo di voti, ci sarà ancora? Queste cose contano nell’indirizzare la politica in Europa, e contano anche nelle decisioni concrete. Se non ci sarà un’entità nuova, un nuovo partito per i progressisti, si rischia un Parlamento europeo nel quale i populisti avranno la maggioranza. E quindi una guida sociale ed economica dell’Europa, al di là dei singoli governi. Dunque molto dipenderà da un accordo tra socialisti e progressisti di altre famiglie politiche. L’accordo non potrà prescindere dalle risposte che si daranno ai cittadini soprattutto su due questioni, che si chiamano inclusione e sicurezza. Questioni che a loro volta rappresentano valori ai quali non si può rinunciare, ma per i quali sono possibili due diverse e opposte risposte. Dovremo essere chiari, e convincenti.
In conclusione. Su queste stesse pagine Marco Minniti ha smontato la retorica populista corrente, negando giustamente che esista ancora un’emergenza immigrazione. Mi piacerebbe poter negare che ci sia l’altra emergenza, quella dell’economia, dei nostri conti, della permanenza nell’euro, dei nostri risparmi. Ma in questo caso non è così: quell’emergenza è tornata a manifestarsi, dopo tanti sacrifici fatti. Si pone come non mai il dilemma del bivio. La strada non è scontata. Se guardiamo dove siamo oggi dopo anni di governo sappiamo in che direzione andare e sappiamo che pur difficile, il sentiero produce risultati. Ma in questo momento il combinato disposto della elevata incertezza e della attrattiva delle scorciatoie, mascherate dalla falsa promessa del “cambiamento” pone il paese di fronte a un dilemma epocale. Personalmente rimango ottimista, sul futuro e sui fondamentali del nostro paese, che è pieno di energie e di capacità di fare impresa e creare lavoro. E’ la sua ricchezza. Ma essere ottimisti, non può significare eludere i problemi, le scelte, i doveri che tutti abbiamo e che non possiamo rinviare, e neppure cullarci nell’illusione che gli sbagli degli altri prima o poi rimettano le cose a posto. Sta a noi. In altri termini, ottimista sì, ma preoccupato comunque.